Gli anni più belli: tutto quello che non funziona nel film di Muccino

Di Alessandra Vita

Se ci fosse una formula per descrivere il cinema di Gabriele Muccino, quella potrebbe essere “cambiando l'ordine degli addendi, la somma non cambia”. I film del regista infatti presentano spesso gli stessi topoi: un gruppo di amici e/o di familiari che si allontana, qualche tradimento e riappacificazione finale, con presa di coscienza del fatto che tutto ciò che avrebbero voluto era esserci gli uni per gli altri.

Gli anni più belli, dodicesimo lungometraggio dalla regia di Muccino, non confuta questa tesi.


TRAMA

Giulio (Pierfrancesco Favino), Paolo (Kim Rossi Stuart), Gemma (Micaela Ramazzotti) e Riccardo (Claudio Santamaria) diventano amici da ragazzi. Gemma e Paolo stanno insieme, Giulio è un ragazzo dalla vita difficile, cresciuto tra la povertà e con un padre violento, Riccardo è appassionato di cinema. Crescendo ognuno prenderà strade diverse. Gemma e Paolo si lasciano quando lei è costretta ad andare a Napoli. Anni dopo si metteranno nuovamente insieme ma lei lo tradirà con Giulio, portando così al raffreddamento dei rapporti tra i due. Ma anche Giulio e Gemma, quando lui si affermerà professionalmente e incontrerà un'altra donna, si lasceranno. Riccardo intanto si sposerà con una donna conosciuta su un set, Anna (Emma Marrone), ma la loro storia porterà solo un figlio e un divorzio. Quando tutti si scopriranno infelici nelle loro vite e si incontreranno di nuovo, sarà come se il tempo non fosse mai passato.


Una scena del film


RECENSIONE

Il film incomincia subito con una scelta registica che stona con quella che dovrebbe essere l'atmosfera. Pierfrancesco Favino, dopo un inizio classico, guarda in camera e, rompendo la quarta parete, pronuncia le parole “Mi chiamo Giulio Ristuccia. Nel 1982 avevo sedici anni”, per poi far partire un flashback e non dire nient'altro. Questa tecnica della rottura della quarta parete viene poi ripetuta nel corso della vicenda da altri personaggi, ma in modo sporadico, senza una vera e propria logica di fondo. A volte la usano per narrare, altre volte è un modo per sentire i loro pensieri. Eppure questo espediente è fine a se stesso, non arricchisce davvero la struttura narrativa. Spesso sembra che Muccino si sia dimenticato di aver adoperato questa tecnica e se ne ricordi solo dopo, per caso.

Il cinema è soprattutto arte del visivo: è meglio mostrare i fatti anziché raccontarli. Sentire i personaggi riassumere ogni tanto pezzi di trama che non si vedono o parlare delle loro emozioni, porta lo spettatore a pensare che lo sceneggiatore fosse pigro. Inoltre il finale, che riporta l'azione alla scena iniziale con Favino, non si conclude con una rottura della quarta parete in modo da portare a termine la struttura ad anello. A che serviva dunque questo espediente? La risposta è semplice: a niente.

Ogni scelta che si prende nel cinema deve essere giustificata, deve sempre esserci un perché. Uno dei maestri della rottura della quarta parete è Woody Allen: ebbene, lui non compie mai questa scelta senza un intento artistico chiaro. In Io e Annie il protagonista dice di soffrire di “iperattività immaginativa”: è perfettamente giustificato dunque il suo parlare con il pubblico, con persone non presenti sulla scena. In Basta che funzioni invece il protagonista è conscio di trovarsi in un film e di essere guardato. Ne Gli anni più belli il perché di questa scelta non trova risposta.

Un altro punto che non funziona è la costruzione dei rapporti tra certi personaggi, il che porta come conseguenza il non capire le motivazioni che li conducono a compiere determinate scelte. La nascita del rapporto tra Gemma e Paolo da adolescenti non ha davvero un inizio e una crescita, Muccino è bravo a illudere che questa ci sia, ma in realtà sembra che i due comincino una relazione perché obbligati da esigenze di trama. Parlano di amore ma non è chiaro quando effettivamente si siano innamorati. E anche successivamente, dopo che Gemma e Paolo, ormai adulti, sembra che abbiano lottato per la loro relazione e siano finalmente insieme, non si capisce perché lei lo tradisca con Giulio e perché i due affermino di essersi innamorati (quando e come è successo?).

Non basta dire qualcosa perché questa sia vera, bisogna mostrarla.

I personaggi poi, soprattutto quelli femminili, sono terribilmente stereotipati. Il pubblico dovrebbe empatizzare con Gemma, eppure non capisce il motivo per cui tutti si innamorino di lei, perché ha una personalità inesistente. Per un buon 90% del film Gemma non fa altro che andare a letto con uomini, come se lei non esistesse al di fuori delle sue relazioni. E quando Giulio per lasciarla le dice che lei non ha interessi, non si può fare a meno di notare che ha ragione.

Peccato che né lei né gli altri personaggi abbiano davvero una crescita personale a fine film. Tutte le occasioni che potevano essere delle ottime scuse per portare i protagonisti a raggiungere nuove consapevolezze, non vengono mostrate, tutto si risolve fuori scena (e ciò fa di nuovo pensare alla teoria dello sceneggiatore pigro).

Un'altra nota dolente è la scelta del cast. Tralasciando il fatto che in una scena Favino, Rossi Stuart e Santamaria dovrebbero avere ventiquattro anni e ne dimostrano almeno il doppio - il che già rompe l'illusione di realtà - i tre dal punto di vista recitativo sembrano più spenti del solito. Purtroppo l'attrice che interpreta Gemma da giovane, Alma Noce, ha una recitazione ai limiti dell'ascoltabile: spesso va in overacting per rendere maggiormente la tragicità di una scena, l'uso della voce è monocorde e sovente mangia le parole (caratteristica in comune con Micaela Ramazzotti). E forse anche grazie a questo, Emma Marrone non pare poi troppo fuori luogo nel cast.

Ciò che invece è fuori luogo sotto ogni punto di vista, è una scena in cui si tessono le lodi di un noto partito italiano, come se avesse chissà quali ideologie rivoluzionarie. Il film in generale è ricco di momenti inutili ai fini della trama e di dettagli aggiunti senza ragione, come la passione di Paolo per gli uccelli (nemmeno fosse un personaggio di Fronte del porto).

In conclusione, Gli anni più belli è un film inconsistente. Benché il soggetto potesse anche avere potenziale se sviluppato meglio e diversamente, così la storia sa di già sentito e a fine visione non lascia nulla allo spettatore, se non un leggero senso di noia.



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