50 anni di DAMS: incontro con Toni Servillo

Di Francesca Cezza

Toni Servillo in una scena del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino

Il dipartimento delle Arti, della Musica e dello Spettacolo, comunemente noto come DAMS, quest’anno compie cinquant’anni: istituito a Bologna nel 1971, per iniziativa del grecista Benedetto Marzullo, fu un vero e proprio esperimento in ambito accademico. Per festeggiare questo cinquantesimo anniversario, il Dipartimento delle Arti dell’Alma Mater Studiorum ha organizzato un vasto palinsesto di oltre trenta eventi culturali, tutti a ingresso libero, iniziati on-line e ora ripresi finalmente in presenza. Tra questi incontri, dialoghi con ex alumni, mostre e spettacoli, vi è anche l’incontro con Toni Servillo.

Marco Antonio Servillo è un attore, regista teatrale e doppiatore italiano. Appassionato al teatro sin da piccolo, iniziò da autodidatta a recitare nell’oratorio salesiano di Caserta. Ben presto, si avvicinò al Falso Movimento, gruppo teatrale fondato a Napoli da Mario Martone, figura che avrà grande influenza sul regista. Infatti, il regista partenopeo debutterà al cinema negli anni Novanta proprio con i film di Martone, per passare poi alle più famose collaborazioni con Paolo Sorrentino. Vincitore di due European Film Awards, quattro David di Donatello, quattro Nastri d'argento, due Globi d'oro, tre Ciak d'oro e del Marc'Aurelio d'Argento per il miglior attore al Festival internazionale del film di Roma, nel 2015 ha anche ottenuto una laurea ad honorem proprio all’Università di Bologna. 

«Proclamiamo Toni Servillo, nato ad Afragola (Napoli) il 25 gennaio 1959, Dottore ad Honorem in Discipline della Musica e del Teatro, e gli conferiamo il presente diploma di laurea a tutti gli effetti di legge, dato a Bologna il 28 febbraio 2015». Queste le parole pronunciate dall’allora Rettore Ivano Dionigi, nell’Aula Magna di Santa Lucia. Riconoscimento che Servillo ha voluto subito dedicare ai tanti studenti del Dipartimento delle Arti. Nella sua lectio magistralis, tenuta in quell’occasione, Toni Servillo ci parla di cinema, di musica, ma soprattutto di teatro: arte che racconta e contribuisce ad aggiungere complessità alla vita.  «Io sono per una concezione del teatro non considerato come sorgente di una rivelazione, ma come un mestiere: il mestiere dell’arte del riciclare, l’arte di creare occasioni di dominio pubblico, affrancati dalla vita privata del creatore».

Il 13 maggio 2021, al teatro Comunale di Bologna, Claudio Longhi (neo-direttore del Piccolo Teatro di Milano) e Giacomo Manzoli (Direttore del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna) hanno dialogato con Toni Servillo sul teatro, e sull’importanza che questo ha avuto e ha tuttora nella vita del regista.  


Foto di Francesca Cezza

Dopo tutte le presentazioni di rito da parte del Direttore di Dipartimento, prende la parola Claudio Longhi, che parte subito in quinta, chiedendo all’attore partenopeo come il teatro, che da sempre fa parte della sua vita, sia entrato a farne parte. La risposta non tarda ad arrivare: dopo aver manifestato tutta la sua riconoscenza al DAMS e a Bologna in generale, Servillo ci rivela di essere stato un attento lettore dei grandi insegnanti del DAMS, come Cruciani e Meldolesi, che gli hanno fornito gli strumenti e i suggerimenti per orientarsi in questo mestiere. Passa poi a sottolineare la nascita in territorio napoletano, più precisamente nel cerchio atellano, “dove si dice sia nato Pulcinella”. «Il teatro inevitabilmente entra nella vita di noi nati a quelle latitudini in un’atmosfera consueta alle ore domestiche, alla famiglia». Dopo qualche secondo di esitazione, Toni Servillo decide di renderci partecipi di un aneddoto della sua infanzia, di una ferita – come lui la definisce – che il teatro ha prodotto nella sua vita. Ci racconta che in famiglia avevano l’abitudine di riunirsi a casa della nonna, in una grande stanza, con tutti i familiari per guardare il teatro di Eduardo (De Filippo, s’intende) in televisione; ovviamente lo andavano a vedere anche a teatro, ma il guardare i suoi spettacoli in televisione costituiva un vero e proprio rito a casa Servillo, un rito che si consumava con grande precisione e piacere. Ciò che colpiva l’allora piccolo Toni, era quel mondo di bislacchi che De Filippo riusciva a creare: tutto un universo familiare che lo incuriosiva molto e che, durante quelle serate in cui guardavano tutti insieme gli spettacoli, ritrovava un po’ alle sue spalle. Già allora – confessa – il teatro si confondeva con il mondo, il mondo con la vita e la vita con il teatro.

Servillo riceve la laurea ad honorem in DAMS dal rettore Ivano Dionigi (a destra). Foto di Studio Schiassi.


Dopo questa grande parentesi sulle primissime esperienze di Servillo con il teatro, Longhi sottolinea come ci siano due grandi categorie che hanno, in qualche modo, orientato lo sviluppo del teatro del secondo Novecento e poi nel nuovo Millennio: tradizione da un lato, innovazione dall’altro. Due universi che il regista ha entrambi esplorato, grazie alla collaborazione con Falso Movimento e Teatri Uniti (per quanto riguarda l’innovazione) e grazie alla lettura dei grandi classici del teatro, come Molière, Goldoni e le tragedie classiche (per quanto riguarda la tradizione). Quindi Longhi chiede a Toni Servillo come, arrivato a questo punto della carriera, egli guardi a questa dicotomia del teatro e come lui si collochi oggi dentro questa dialettica. Con molta naturalità, il regista risponde che, con il tempo, ha imparato a non guardare più a questa dicotomia, se ne disinteressa: questa dicotomia – afferma Servillo – ci ha creato una serie di handicap culturali. Il regista non rinnega quanto l’esperienza dentro i linguaggi “di sperimentazione” siano stati utili e nutrienti per affrontare il teatro “di tradizione”: anzi, ci dice che «il mio atteggiamento sperimentale nell’affrontare Tartufo di Molière è l’atteggiamento che da regista io mutuo dall’essere un attore: tutte le volte che vado in scena cerco di andare in scena come se fosse la prima volta e anche l’ultima, come se quella fosse l’esecuzione di sempre. E questo è l’atteggiamento che io trasferisco al regista: cioè, il regista cerca di sottrarre il capolavoro della tradizione alla polvere del repertorio, cioè di portare in palcoscenico un testo della tradizione come se fosse una novità, come se fosse stato scritto il giorno prima». Secondo un insegnamento di Jouvet – che il regista ci riporta – bisogna imparare a chiudere il teatro dentro un triangolo, formato dalle fondamentali solite tre domande: chi è colui che ha scritto il testo, chi sono coloro che sera dopo sera vanno ad assistere allo spettacolo e chi sono coloro che sul palcoscenico si agitano per dare vita a quello spettacolo. Questo, secondo l’attore francese, fa sì che non si depositi la polvere sul repertorio e alimenta il fuoco della necessità esecutiva che c’è dentro ogni meccanismo drammaturgico. «Io credo che il male peggiore che il teatro fa a se stesso è quando fa del brutto teatro, nel riproporsi o in maniera narcisistica o in maniera intellettualistica. Il teatro è sempre una questione di pensieri che diventano passione, di dialoghi materializzati per cui tu hai l’impressione che hai incontrato quella sera quel personaggio. I grandi personaggi scappano dai romanzi, e vivono di vita propria. Mentre invece il teatro, se è vivo, li àncora a questo luogo. E questo è tanto più vero anti-narcisisticamente perché dimostra che non esiste un Amleto, ma tanti Amleti per quanti attori in tante epoche hanno tecnicamente utilizzato strategie per far vivere quel personaggio». Quindi, per tornare alla domanda iniziale, non bisogna guardare né alla tradizione né alla sperimentazione in maniera superficiale, ma bisogna immaginare che si possano compenetrare, a condizione che siano vive e che interpretino il testo come un oggetto vivo. 


Toni Servillo legge l'Eneide di Virgilio per l'iniziativa dell'Università di Bologna "Parole per noi"

La terza domanda di Claudio Longhi riguarda l’argomento musica: in particolare, il rapporto che il regista ha con essa e, soprattutto il posto che essa occupa all’interno della dimensione del suo teatro. «Di formazione e di arricchimento, ma non di uso» è la risposta che subito ci viene fornita. Servillo, infatti, afferma di provare un certo fastidio quando la musica è relegata ad una dimensione ancellare laddove il teatro da solo, con le sue uniche forze, non ce la fa ad arrivare. Fastidio che si ripropone quando (la musica) deve commentare o sottolineare emotivamente una scena, o un avvenimento. Invece, la passione e l’ascolto della musica è fondamentale per quello che ti insegna dal punto di vista registico nella direzione di un attore o di una serie di attori che vanno a costruire una scena. Molte volte un senso musicale determina anche esattamente la posizione di un attore in palcoscenico, cioè determina anche le ragioni di uno spazio: è la cosiddetta prossemica. Quindi, Servillo ci dice che la musica, quando non fa pensare, quando si occupa solo di emozionare lo spettatore, scegliendo la via più facile, non gli piace.

La parola passa quindi a Giacomo Manzoli, e cambia anche l’argomento di discussione: ora è il turno del cinema. Un riferimento all’ambiente culturale napoletano da parte dello stesso Manzoli, risveglia in Toni Servillo un bisogno di chiarimenti sul suo essere un napoletano: «Quando io dico che sono napoletano intendo dire tre cose: la prima è che ho la fortuna di avere alle spalle una tradizione nobilissima nelle arti dello spettacolo», e qui Servillo si lascia andare ad una battuta di spirito: «un conto è essere nati a Napoli, se uno vuole fare l’attore; un conto è essere nati a Bolzano, con tutto il rispetto per Bolzano». «La seconda cosa – riprende subito – è che il napoletano ha un comportamento che gli antropologi definiscono “comportamento sociale recitato”, che è un hummus nel quale tu cresci e del quale ti impossessi anche involontariamente. E poi la lingua: il napoletano contiene nella sua lingua un’indicazione comportamentale che va al di là del senso della parola». Tutto questo è teatro allo stato puro, «sennò si rischia di pensare che uno fa l’attore pcchè ssi nat ind ‘o paes ‘e Pulcinell, ma non è così». Riprende la parola Manzoli che, dopo questo excursus sulla napoletanità, sottolinea l’importanza della figura di Mario Martone: Servillo allora, non esita a parlare di Teatri Uniti e di come sia nato questo esperimento. Coinvolti nella piena cultura degli anni Settanta, guardavano al cinema americano ed europeo, in particolare a Rainer Werner Fassbinder che produceva teatro, televisione, sceneggiati radiofonici e cinema. Guardando questo tipo di esperienza, Mario Manzoli decise di fare una sceneggiatura su Renato Caccioppoli, decidendo di produrlo con le proprie sole forze. Si creò quindi una compagnia, formata da tre diverse compagnie, e si iniziò a produrre il cinema in maniera indipendente. Il primo film di Teatri Uniti è stato Morte di un matematico napoletano e, ci confida il regista, il primo giorno di set era molto intimidito e spaventato.

«Al teatro recito, al cinema ho recitato. E la declinazione verbale la dice lunga sulla faccenda. Lo dico senza stabilire nessuna graduatoria: sono estremamente affascinato da tutti e due i mestieri, ma questa (indicando il palco) è la mia casa, perché qui recito. Nel senso che sono al presente. Il cinema per un attore è una faccenda complessa e affascinante, ma può essere anche una macchina che ti ruba l’anima completamente».

Toni Servillo nel documentario Il teatro al lavoro. Foto di Francesca Cezza

L’ultima domanda che viene posta a Servillo riguarda i passi fondamentali o, in negativo, le cose da evitare o, ancora, qualcosa che non può mancare nel bagaglio culturale di chi aspira a diventare parte del teatro italiano. Innanzitutto – risponde Servillo – il pensare che questo sia un lavoro, anche se di fatto lo è. Non bisogna pensare al lavorare in termini di reddito. Il regista recrimina una forte corruzione da questo punto di vista, da parte di tanti media nei confronti di chi vuole fare questo mestiere: corrompono sulla bellezza, sull’avvenenza e su un’idea generica di talento, sulla qualità della vita. Ma è tutto falso. Il teatro è una passione che va condivisa con altri, propri coetanei, per cercare di tirare la testa fuori dal sacco e andare a bussare alle istituzioni per farsi conoscere. «Il palcoscenico è un’esperienza che impatta talmente tanto con la vita che non può essere declinata in termini di carriera: sono incontri, sono relazioni di simpatia, sono innamoramenti, passioni che si intrecciano e che vanno governate con intelligenza». Il talento di un attore è un qualcosa di profondamente compromesso con la vita. È una faccenda interpersonale, ma non solo tra gli attori, ma anche tra gli attori e il pubblico: «Se vai a vedere un film, e il film non ti è piaciuto, dici “vabbè, vedo quello di domani”. Ma quando vedi un brutto spettacolo, è un’esperienza di merda. È una delusione umana».

Dopo un fragoroso applauso partito dalla sala, durato diversi minuti, come ringraziamento per questa lectio magistralis sul teatro e sulla sua importanza, nonché bellezza, abbiamo assistito alla visione de Il Teatro al Lavoro. Opera segnata interamente dalla dualità: un uomo e una donna, un uomo di teatro storicamente esistito (Jouvet) e un personaggio femminile di finzione (Elvira); dualità delle figure principali, ma anche del regista e dell’attrice; e, ancora, dualità tra il maestro e l’allieva: una dualità di tragitti, visioni ed esperienze, di ricerche parallele e incrociate dei due protagonisti, che si ricongiungono nel lavoro del teatro. Una dualità tra la verità e la menzogna, tra il sentimento e la tecnica, tra il narcisismo e la negazione di sé. Insomma, molto più di una pièces sul teatro. Jouvet ci mostra il teatro al lavoro, da qui il titolo del documentario: il teatro che lavora nelle nostre coscienze, nelle coscienze di chi lo fa che di chi lo vede.

Toni Servillo in Elvira (Elvire Jouvet 40) insieme all'attrice Petra Valentini. Foto di Fabio Esposito.

Il Teatro al Lavoro è un documentario di Massimiliano Pacifico, sulla progettazione di Elvira, uno spettacolo di Toni Servillo, tratto dalle lezioni di Louis Jouvet al Conservatorio d’Arte Drammatica di Parigi nel 1940. Ciò che accade in queste sette lezioni tra Jouvet e Petra va ben al di là dei problemi legati all’interpretazione della scena seconda di Elvira nel Don Giovanni di Molière. Ciò che emoziona e che appassiona immediatamente di questo testo, e che va ben al di là di una semplice lezione di teatro impartita ad un’allieva, sta nel fatto che tutti e due i protagonisti, ciascuno a modo suo, sono coinvolti in parti uguali in un processo di ricerca su un enigma che ha per nome Elvira, e contemporaneamente una propria immersione in se stessi e nella propria interiorità. Non si tratta di una trasmissione a senso unico, ma piuttosto del confronto e della complicità di due volontà, due modi di interrogarsi e di far lavorare l’immaginazione. Attraverso il personaggio di Elvira, ciò che lei dice o che lei fa o che lei rappresenta, c’è l’eterno gioco della verità e della menzogna, dell’amore e della perdita di sé. C’è il teatro, che consiste nel cercare in se stessi ciò che ci è estraneo, e pertanto familiare a ciascuno di noi.

Sarà stata l’emozione di tornare in un teatro dopo così tanti mesi, sarà stata la bellezza del Teatro Comunale di Bologna, oppure sarà stata la verve napoletana di Toni Servillo, ma quel tumulto di cui tanto parla Jouvet – e di cui il Servillo ha più volte sottolineato l’importanza – è stato abbondantemente avvertito. Il palco quasi vibrava e queste vibrazioni ci sono arrivate forti come una forte folata di vento in faccia. Toni Servillo non si è risparmiato nel parlare del teatro, e nel far capire cosa c’è davvero dietro uno spettacolo: con le sue parole e con i suoi gesti, noi spettatori siamo stati travolti dalla passione verso questa arte. Ci è stata buttata addosso tutta la bellezza, l’amore e la dedizione che si possa provare per il teatro, e per questo saremo infinitamente grati a Toni Servillo.


Foto di Francesca Cezza.


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