Di Laura Astarita
«Vola, García Lorca, vola, vola, vola! E tu, Roberto Latini, accendi il fuoco del teatro!»
Queste sono le parole con cui il prof. Rafael Lozano Miralles, docente di Letteratura Spagnola presso l'Università di Bologna, nonché uno dei massimi studiosi di Federico García Lorca, introduce Lasciate le mie ali al loro posto, una lettura di Roberto Latini, sul palco del Teatro Comunale "Alice Zeppilli" a Pieve di Cento.
L'attore Roberto Latini«Un grande attore in un piccolo teatro», così riassumo ad un'amica le ragioni per cui dovrebbe venire, da Bologna, in un paesino di provincia per un'ora e mezza di spettacolo. «Ti vengo a prendere in stazione in macchina, ti accompagno». Per la prima volta dopo sette mesi, entrambe andiamo a teatro.
A dire il vero, io torno alle origini della mia formazione teatrale. Ricordo che è sulla barcaccia di quel teatro che, da giovanissima, ho realizzato cosa volessi fare nella vita. Ritorno dopo sette mesi a teatro e, dopo tre anni, all'Alice Zeppilli: la sala mi sembra improvvisamente più piccola di quanto ricordassi (ma non si è rimpicciolita, forse sono solo io che sono cresciuta).
Gli spettatori sono teatranti, a modo loro. Vivono il ritardo per l'inizio dello spettacolo esattamente come gli attori, dietro le quinte, che scalpitano impazienti di andare in scena. Vivono il disagio dei problemi tecnici esattamente quanto i tecnici: una luce che entra in sala dalla porta socchiusa di un palchetto, un microfono che fischia. Si muovono nel buio della sala, scrutano i loro "colleghi" spettatori, esattamente come maschere apprensive. Organizzano scrupolosamente, al pari di un manager, la propria vita in modo da trovarsi lì in quel luogo, quel giorno, su quella poltrona, all'ora stabilita.
Quanto è triste, un teatro senza spettatori?

Teatro Comunale "Alice Zeppilli" di Pieve di Cento (BO)
Lo spettacolo, organizzato e curato da Elena Di Gioia, è composto da epistole scritte del poeta (e teatrante) Federico García Lorca. Dalla richiesta di comprensione e di libertà artistica verso i genitori «lasciate le mie ali al loro posto!», alle parole d'affetto spese per l'amico Salvador Dalì, a quelle talvolta di astio, talvolta d'amore, per la sua vita «gitana», che spesso intralcia la sua Arte.
L'arte che concorre con la vita anche nel repertorio: le epistole si mimetizzano coi versi, alcuni tra i meno noti, come La ballata di Cappuccetto Rosso. Tutto per dare voce all'uomo, a "Federico", più che al poeta García Lorca.
Nel corso dell'introduzione, il prof. Miralles fa mostra dei filmati d'epoca sull'attività di García Lorca col teatro itinerante La Barraca. Vediamo le sue foto, vediamo una pellicola nella quale recita gli autori del siglo de oro, ascoltiamo una registrazione dov'è lui che suona il pianoforte: si è andata perduta, però, ogni incisione della sua voce.
Ed è quindi Roberto Latini a prestare la propria, di voce, per far rivivere le parole di Federico.
A completamento della lettura, vengono proiettati i disegni che il poeta era solito dedicare ad amici e scrittori nelle lettere che scriveva. «Disegni umanissimi», come umanissimo e reale è l'uomo che, di fronte ad altri uomini, in un teatro, si fa servo della parola poetica per la rappresentazione.
Fin dal primo respiro, mi accorgo che Roberto Latini non dà solo la propria voce, ma ogni parte del suo corpo alle parole di García Lorca. Tutto, di lui, declama le sue parole. Potrebbero essere la sua lista della spesa, ma l'attore è servo del poeta e ogni cellula del suo essere, dall'unghia del piede fino alla superficie del cranio, si lascia possedere dalla sua lingua.
Dopo sette mesi in cui gli attori sono stati, per me, voci lontane, registrate su uno schermo, vedere un corpo, vedere un attore che è anche umano, mi ricorda cosa ci rende teatranti: siamo umani che condividono la propria umanità.
Roberto Latini si muove, fin da subito, al ritmo della musica che genera le sue parole. Non ci risparmia nulla: né un singulto, né una deglutizione, né un sospiro. Se potesse sporcare lo spartito col battito del suo cuore, il gorgoglio del sangue che sale al cervello, ogni singolo rumorino proveniente dal suo corpo, lo farebbe. Ogni parte del suo corpo reagisce alla musica: ginocchio, genitali, spalle.
Mi chiedo, allora: sono risonatori, quelli? Sta davvero leggendo con l'avambraccio, l'osso del collo, il bacino?
Latini trattiene dolcemente, saldamente il microfono vicino a sé, appoggia il polso alla sua asta come in un abbraccio, e sfiora, timoroso, con la punta delle dita, le pagine sul leggio. Ho l'impressione che stia facendo l'amore con le parole. Alla fine di un brano lascia bruscamente il leggio ed indietreggia, come se si fosse scottato, la braccia discoste dal corpo. Posseduto dai versi, dal "fuoco" del teatro, Latini si costringe a distaccarsi per non perdersi, ma è una separazione violenta, quasi dolorosa.
Federico, a cui dà voce Latini, è timido, è dirompente, «con il cuore colmo di poesia fino all'orlo». La cura con cui García Lorca sceglie le parole è la stessa con cui Latini sceglie le sue pause.
Dal giovane poeta ventenne, lo spettacolo si conclude bruscamente con l'ultimo testo di García Lorca, quello che non è mai riuscito a completare, perché poi sarebbe morto fucilato dai franchisti. Si tratta di un pezzo metateatrale: una Commedia senza titolo.
Lo spettacolo non può terminare così, non con una parola monca, con un'opera incompleta. La vita può anche farci lo scherzo di finire all'improvviso, ma questo è il teatro, e a teatro si deve avere l'illusione, almeno per un'ora e mezza, di poter scegliere come lasciare la scena, come congedarci dal pubblico. Latini allora le dice, anzi le sussurra, quelle parole:
«Lasciate le mie ali al loro posto».
Cala già il buio, risuona infine la musica: Take this Waltz di Leonard Cohen, la canzone che prende in prestito le parole tradotte di Federico Garc
ía Lorca, della sua poesia
Piccolo valzer viennese.
Federico García Lorca
Gli applausi arrivano: il teatro è semivuoto a causa della capienza ridotta al 50%, ma risuonano nella sala come se fossimo in mille. Latini raccoglie i suoi preziosi versi, lascia che il pubblico li applauda.
L'emozione è fortissima, Latini ringrazia e ci confessa di aver contato i giorni trascorsi dall'ultima volta che è andato in scena. La voce è rotta dall'emozione, come a chi viene tolto l'ossigeno e può finalmente respirare.
Mi emoziono adesso, perché l'arte e la vita davvero spesso si contrastano: siamo umani, siamo corpo e voce, non podcast o videoregistrazioni, e la vita è talmente fragile ed imprevedibile che spesso si rischia di lasciare parole monche e teatri chiusi. Siamo tragicamente mortali, e il teatro celebra l'ora e il luogo nel quale siamo vivi e completi. Mi emoziono, o meglio no, non mi emoziono adesso: sono stata emozionata tutto il tempo, fin dall'inizio, ma solo adesso me ne rendo conto. Non ho voglia di lasciare la poltrona dell'Alice Zeppilli, dietro la mascherina ffp2 mi trema il labbro, cerco di non scoppiare a piangere. Sono sopraffatta da questo spettacolo «umanissimo» e dalla tristezza di questa scena vuota.
Come García Lorca, anche noi in questo periodo abbiamo fatto i conti con l'imprevedibile concretezza della vita che, oggi più che mai, è d'intralcio al corso dell'Arte.
Attori, macchinisti, tecnici, maschere, registi, scenografi, personale di sala. Spettatori. Da un anno (forse da più di un anno) un intero settore ha gridato parole senza che nessuno sentisse. Sono in tanti ad aver visto i propri sogni infrangersi e sfumare nel vento. È bastata, tuttavia, una sola sera a teatro per riappropriaci di quelle parole che sono state lanciate nel caos, le parole che si vorrebbero dire a chi, come direbbe García Lorca, non ha gli occhi per sentire:
Lasciate le nostre ali al loro posto.
Disegni e testi di Federico García Lorca
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