Amore e morte: ecco i due più grandi tabù del teatro. Fin dall'Antica Grecia, i delitti tragici sono stati occultati dalla scena tramite l'utilizzo di espedienti pre-registici. Con il tempo, il teatro si è sempre più abituato all'idea di mettere in scena la morte e la violenza. Tuttavia, molto più grande è il mistero dell'amore. La sessualità, nel teatro, resta per molto tempo un tabù insormontabile, che sia nella danza, nella lirica o nel teatro.
Ci troviamo nella Parigi fin du siècle, quando un noto esteta irlandese scrive un testo che verrà definito "la Colonna d'Ercole" del teatro decadentista. Un'opera da non superare, dove «più in là, si muore». (1)
Salomè con la testa di Giovanni Battista, Caravaggio
Salomè, atto unico di Oscar Wilde, viene scritto nel 1891.
La pièce intende mettere in scena l'episodio biblico della decapitazione di
San Giovanni Battista (qui
Jochanaan) dal punto di vista di coloro che ne hanno
comandato l'esecuzione: la principessa Salomè ed Erode Antipa.
La
vicenda ha luogo a Gerusalemme, durante una notte di luna. È in corso
un'assemblea presso il palazzo di Erode. La presenza di ospiti
illustri, tra rabbini giudei e nazareni, è dovuta alla necessità di
giudicare se il nuovo prigioniero del Tetrarca, Jochanaan, possa definirsi il Messia o il profeta Elìa. Questi infatti non fa che annunciare a gran
voce il «figlio
dell'uomo» dal fondo
della fossa in cui è tenuto prigioniero, esortando ogni uomo o donna
in ascolto a recarsi da lui per cercare salvezza.
Salomè,
figlia della consorte del Tetrarca, Erodiade, sentendosi a disagio
per le occhiate insistenti di Erode, abbandona
l'assemblea. Si reca dunque in giardino e ode la predica di
Jochanaan. Qui Salomè, sfruttando l'innamoramento di una
guardia siriana, riesce finalmente a vedere il profeta di cui tutti
parlano. L'incontro tra Salomè e Jochanaan fa nascere nella
principessa il primo impulso erotico della sua vita: il desiderio di
baciare un uomo. Jochanaan però la rifiuta, e le conseguenze sono devastanti.
Uscito
anch'egli in giardino, Erode sente il battito d'ali di un angelo
della morte e scivola col piede nel sangue del siriano, uccisosi nel
frattempo per l'amore non corrisposto di Salomè. Per distrarsi dai
pensieri funesti che lo angosciano, Erode chiede alla figliastra di
danzare per lui la danza dei sette veli. In cambio, Erode le
promette di esaudire qualsiasi sua richiesta, «fosse
anche la metà del mio regno».
Salomè accetta.
Le didascalie di Wilde non dettano troppe informazioni, sulla suddetta danza.
Recitano solo, testualmente (2):
«Salomè danza la danza dei sette veli».
Questa semplice didascalia sarà sufficiente a condannare l'opera a quarant'anni di censura. Terminata la danza, Salomè s'inginocchia di fronte al Tetrarca e domanda, come ricompensa, la testa di Jochanaan. Erode tenta di dissuaderla, ma lei insiste.
Incastrato dalla sua stessa promessa, Erode ordina l'esecuzione di Jochanaan. Non si risparmia, però, di insultare la figliastra (3):
ERODE
È mostruosa, [Salomè], è davvero mostruosa. E ciò che ha fatto è un delitto immenso. Un delitto contro un Dio sconosciuto.
Nel momento in cui stringe la testa di Jochanaan tra le mani, Salomè ne bacia la bocca. Quando, però, realizza che un singolo bacio non è sufficiente a spegnere il suo desiderio, né la morte di Jochanaan a risanare la ferita causata dal suo rifiuto, Salomè s'infuria. Incolpa il morto per averla costretta a compiere la barbarie (4):
SALOMÈ
Se tu mi avessi veduta, mi avresti amata. […] E il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte.
Colta però dalla consapevolezza dell'aver ottenuto il bacio desiderato di Jochanaan, Salomè si dice che non ha importanza se il sapore dell'amore è simile al sapore del sangue, finché lei lo abbia assaporato.
La pièce si conclude con Erode che ordina alle sue guardie di far giustiziare Salomè.
Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893
Fin
dal suo debutto a Parigi nel 1896, al Theatre de L'Oeuvre, la
controversa Salomè fatica ad incontrare la realtà
concreta del palcoscenico.
Sarah
Bernhanrdt, la “voix d'or” di Parigi, per la quale Wilde
pensa il ruolo di Salomè fin dalla sua genesi (e infatti la prima
stesura dell'opera è in francese), rifiuta il ruolo perché teme che la danza dei sette veli possa infangare la sua reputazione.
In
Inghilterra se ne vieta la rappresentazione fino al 1931. La
motivazione parrebbe essere la presenza di temi “proibiti”: il bacio di Salomè con la testa di Jochanaan scoperchia ad esempio una serie di
allusioni che vanno dalla necrofilia all'eresia. Quello che viene
declamata nel monologo di Salomè è infatti un vero e proprio elogio erotico del Battista, figura sacra nella religione cattolica.
Il
rapporto tra Salomè ed Erode, inoltre, viene reso
ambiguo e potenzialmente "incestuoso" a causa della presenza di una didascalia lasciata accuratamente vaga.
Non sappiamo se fosse nelle intenzioni di Wilde sottintendere che
Salomè si possa essere spogliata, o addirittura concessa ad
Erode nel corso della danza dei sette veli. Sappiamo solo che la
società vittoriana e la stessa Sarah Bernhanrdt lo hanno ritenuto possibile. Inoltre, c'è da dire che Oscar Wilde era sotto processo, in quel periodo, per il reato di sodomia. Tanto è bastato a condannare l'opera alla censura.
Dopo
aver visto la Salomè
al Piccolo Teatro di Max Reinhardt, nel 1902 a Berlino, Richard
Strauss
decide di comporne un adattamento operistico, ultimato, successivamente, nel 1905.
Il compositore ignora (consapevolmente) lo scandalo in cui viene coinvolto Oscar
Wilde in quegli anni. Direi per fortuna, perché Salomè diventa il capolavoro di Richard Strauss.
Fin
dal suo debutto nel 1905, a Dresda, diventa subito chiaro a tutti che la
Salomè
di
Strauss funziona meglio della Salomè di Wilde. La Salomè di Strauss, rispetto a quella “senza musica” di Wilde, è un successo sotto ogni punto di vista. Nel 1910 a Coven Garden, nello stesso Paese in cui la Salomè di Wilde resterà interdetta per altri 21 anni, il soprano Aiko Ackté si esibisce per la prima volta, personalmente, nella danza dei sette veli. A partire dalla didascalia di Wilde, Strauss compone infatti un balletto di circa dieci minuti che Otto Erhardt (5) analizza in questo modo:
«Per la danza dei sette veli i musicanti attaccano le sincopi primitive d'una danza esotica eseguita da strumenti stridenti e strepitosi, ma Salomè li contiene col gesto imperativo, accompagnato dal motivo "Voglio la testa di Jochanaan"; dopo di che il ritmo furioso tosto si placa e dà luogo ad una melodia soavemente cullante.
Con questa fantasia sinfonica è creato un nuovo tipo di movimento: non danza da balletto, ma danza d'espressione; non esibizionismo erotico, ma pittura del più intimo di un'anima».
Il brano di Strauss salva dunque la danza dei sette veli dall'ambiguità.
Prima della Ackté, i soprani venivano sostituite da ballerine professioniste per quell'esibizione specifica. A dire il vero, è una soluzione che spesso viene adottata anche ai giorni nostri. Tuttavia, l'esibizione della Ackté rende subito chiara l'infinita versatilità registica della Danza dei sette veli. A metà strada tra una danza del ventre e una pantomima, il ballo assume un carattere narrativo: Salomè ora ha dieci minuti a sua disposizione per mostrarci il suo punto di vista, o smascherare quello di Erode. Negli allestimenti registici degli ultimi anni, si osserva infatti una prolifera variazione sul tema della danza dei sette veli, dove i diversi elementi della rappresentazione (scenografia, musica, danza, recitazione) concorrono a far emergere «un'anima», anziché un corpo. Così, Salomè diventa donna, personaggio, e non abominio. Per questo la danza assume efficacia se è la stessa interprete del ruolo a praticarla, perché la danza diventa parte del personaggio, un nodo nevralgico del suo sviluppo. I registi colgono questo potenziale, e spesso rendono il momento della danza il punto di massima tensione dell'opera. La danza dei sette veli diventa la danza di Salomè: una Salomè sempre diversa. Talvolta politica, sfacciata ma anche crudele, scabrosa. Da personaggio biblico, Salomè si fa allegoria danzante tra le mani dei registi lirici.
Asmik Grigorian (Salomè). Foto di Ruth Waltz.
UNA DANZA STATICA: ROMEO CASTELLUCCI
Romeo Castellucci
al Festival di Salisburgo 2018 mette in scena una
Salomè che è stata riproposta di recente su Rai5. Dopo il debutto, vince la menzione “Miglior regia” dalla rivista
Opernwelt.
Castellucci afferma: «
Vorrei fare una Salomè senza una goccia di sangue», esprimendo così il desiderio di confutare con la sua regia tutti gli stereotipi legati all'opera di Strauss. Fa dunque versare ai piedi della Principessa, del latte, il quale biancore rappresenta l'innocenza della fanciulla. Tutto il sangue versato diventa
latte. Castellucci
sceglie di “ribaltare” l'iconografia tradizionale della
Salomè: evidenzia quindi il carattere bianco e virginale della protagonista, anziché il suo lato sanguinario. Jochanaan, invece, che dovrebbe essere l'oggetto del desiderio di
Salomè, ma anche la vittima della tragedia, viene rappresentato come un'ombra nera. Avvalendosi anche della famosa
sfera nera che porterà alla menzione in
Opernwelt, Jochanaan avvolge totalmente la giovane fanciulla nella sua oscurità.
Salomè entra in scena sporca del suo sangue mestruale: è una notte di luna piena, il ciclo lunare spesso viene associato a quello femminile. Salomè sta vivendo il passaggio dall'età dell'innocenza all'età adulta. Sarà dunque Jochaanan, vestito da sciamano, a celebrare il suo rito di passaggio. In alcune culture del Sudamerica, le ragazze sono sottoposte ad un rito di passaggio nel giorno del loro menarca. Queste vengono isolate dalla comunità per giorni, per poi essere riaccettate nel tessuto sociale rivestendo un nuovo status, in quanto da bambine sono ora diventate donne.
La danza dei sette veli è quindi parte di questo rito di passaggio. Salomè viene lasciata da sola, isolata: tutti lasciano la scena fuorché lei, proprio come nei rituali sudamericani. L'esibizione, inoltre, subisce anch'essa un ribaltamento iconoclastico. Salomè resta infatti totalmente immobile, come una statua: legata, in posizione
fetale su un piedistallo, per l'intera esecuzione musicale del balletto. Come nelle tragedie
greche che impedivano la visione degli atti illeciti, anche
Castellucci ricorre all'espediente tecnico e occulta il soprano in un blocco di pietra che discende dall'alto. Salomè riappare, alla fine della Danza dei sette veli, e la si vede nell'atto di rivestirsi, in preda allo shock.
Senza alcun dubbio Salomè ha perso la sua
innocenza di bambina, ma non per sua volontà. Il passaggio è avvenuto: ufficialmente donna, ora la fanciulla può diventare l'oggetto del desiderio sessuale. Salomè, ora donna, ordina ad Erode di portarle la testa di Jochanaan su un "grazioso vassoio argentato”. Non le verrà portata però la testa, ma l'intero corpo decapitato, e non su un vassoio, ma in una
busta di plastica: ancora una volta, avviene un ribaltamento. Lo sconvolgimento iconografico corrisponde ad un ribaltamento dell'opera: Salomè non è la storia di un delitto, ma la tragedia di un'innocente. E l'innocente non è più Jochanaan, ma Salomè: schiacciata della responsabilità, non scelta, di essere donna.
Asmik Grigorian (Salomé) nella danza dei sette veli, foto di Ruth Waltz.
UNA DANZA POLITICA: ROBERT CARSEN
Di
taglio completamente opposto è la regia di Robert
Carsen che
debutta nel 2008 al Teatro Regio di Torino. Carsen ambienta la sua
Salomè
in
un mondo corrotto dal consumismo, dove l'unica religione è quella
del Dio denaro.
Salomè in questo caso è una vera e propria spogliarellista: il corpo che vediamo in scena è quello di una donna che si sta vendendo. Un corpo che può essere messo in vendita come potrebbe qualsiasi cosa, in questo mondo. Carsen sceglie dunque una rappresentazione senza veli della danza "dei sette veli".
Non avendo visto personalmente lo spettacolo, affido la descrizione della scena alle
parole del critico Stefano Mola su Traspi.net:
«Salomè entra in scena con un
vestito lungo e luccicoso. Niente pantacollant, quando il gioco si fa
duro si mette tutto in campo. […] E il mondo reagisce. Ai sette
veli corrispondono sette vecchi che le turbinano goffamente intorno,
e che in preda al delirio masturbatorio si spogliano a loro volta[…]».
L'ambientazione
decadente resta, ma viene quindi attualizzata: la musica di Strauss non ha più una funzione narrativa, ma straniante. Questo permette a Carsen di portare in teatro «una
scena che potrebbe essere in un qualunque locale equivoco». Un mondo dove la bellezza, simboleggiata da Salomè, ha un potere e un'influenza
apparente, data esclusivamente dal beneplacito del denaro. Una regia politica, quella di Carsen, a tratti distopica. Eppure, anche alla fine della Salomè di Carsen, la protagonista, ugualmente, soccombe: non c'è spazio, in questo mondo, per chi si ribella al Dio denaro. O lo veneri, o muori.
Foto di Ramese e Giannella – copyright Fondazione Teatro Regio Torino
UNA DANZA NEL PASSATO: DAMIANO MICHIELETTO
Una sintesi tra Carsen e Castellucci potrebbe essere senz'altro la messinscena di Damiano Michieletto. La sua Salomè debutta il 20 febbraio 2021 in diretta TV dalla Scala di Milano, in piena zona rossa da coronavirus. Complice forse la spettralità di un teatro vuoto, forse l'eredità del più recente Castellucci, ma la regia di questa Salomè si allontana dalle solite regie di Michieletto. Il regista milanese, infatti, è sempre stato un regista da "cronaca nera", ma mai così simbolico ed iconoclasta come questa volta. In effetti Michieletto, consapevole della pericolosità di Salomè, sceglie di renderla ancora più pericolosa nella sua attualità. Sulla fredda scena scalingera si aggirano alcuni angeli bendati, con grosse ali ricoperte di piume nere e il corpo di un bianco scultoreo. Minaccioso e spettrale, il riferimento all'angelo della morte è chiaro fin dal principio e si ha la sensazione che la vera tragedia sia, in realtà, già avvenuta.
L'atrocità principale di questa Salomè non è la decapitazione di Jochanaan, ma il rapporto incestuoso tra Salomè ed Erode. Polemico ed attuale, Michieletto giustifica quindi la Principessa di Giudea ricordandoci che, secondo le fonti bibliche, Salomè non era che una bambina quando danzò per Erode. La Salomè di Stauss, secondo Michieletto, ci racconta le conseguenze psicologiche di un abuso. Come in Castellucci, anche Michieletto fa riferimento all'antropologia rituale, solo che stavolta quelllo di Salomè non è un rito di passaggio, ma di un rito sacrificale. La Principessa di Giudea viene associata ad un agnello sacrificale, passando definitivamente da vittima a carnefice.
Al limite del cinematografico, Michieletto trasforma la danza dei sette veli in un "flashback" nell'infanzia di Salomè. Il soprano Elena Stikhina viene sollevata di peso da un corpo di ballo composto esclusivamente da uomini mascherati. Salomè viene "trascinata" e forzata a rivivere il trauma dell'abuso subito da Erode quando era bambina. La condanna di Salomè è irreversibile: ogni uomo che incontrerà nella sua vita la costringerà a rivivere l'episodio. Jochanaan non fa eccezione: lui le dà una prospettiva di salvezza, e poi respinge il suo amore. Salomè, in preda alla follia, lo fa decapitare. Tuttavia, l'omicidio di Jochanaan diventa quasi episodico. La passionalità di Salomè la porta a ben peggio: tentare di uccidere la propria madre, Erodiade, spingere al suicidio il soldato persiano innamorato di lei, qui Narraboth.
«Salomè è un Amleto allo specchio», spiega Michieletto in un'intervista per Il Messaggero. Infatti, il vero antagonista è lo zio, Erode, che sposa la moglie del suo stesso fratello, e anela all'annientamento della nipote.
Il bisogno di farsi giustizia da sola contro la propria famiglia, rifiutando il suo status di vittima, è il motore della furia omicida di Salomè. La
Danza dei sette veli si conclude con l'innalzamento delle vesti bianche di Salomè, che lasciano dietro di sé una lunghissima scia di sangue che, di rosso, inonda tutto il palcoscenico. Simbolicamente, rappresenta la scia di amore e morte che, in seguito alla vicenda dell'abuso, Salomè lascerà dietro di sé con le sue azioni.
Foto promozionale della Salomè di Damiano Michieletto
UNA DANZA FATALE: GABRIELE LAVIA
Una
Salomè che senz'altro sarebbe piaciuta a Wilde, è invece quella propostaci nel 2019 da
Gabriele Lavia. La regia di Lavia, in effetti, è molto attenta alle indicazioni "drammaturgiche" di Wilde che sono state riproposte nel libretto dell'opera. Questa
Salomè, infatti, sembra quasi più fedele a Wilde che a Strauss. Nella regia di Lavia c'è tutto: ci sono gli specchi, c'è l'anello di Erode: tutti gli elementi diegetici che spesso vengono omessi. Un solo "oggetto", però, viene dimenticato da Lavia: la testa di Jochanaan. In un'
intervista per
Il Messaggero, quando la giornalista Simona Antonucci gli fa notare d'aver eliminato il bacio necrofilo tra Salomè e Jochanaan, Lavia risponde: «Non se ne può più di quelle mossette pseudoerotiche di lei che bacia la bocca insanguinata di Jochanaan. Giochini sensuali che non aggiungono nulla[...]».
Nel corso della Danza dei sette veli, la principessa di Giudea si scopre il seno senza tuttavia denudarsi. Una serie di specchi caleidoscopici offrono allo spettatore i dettagli del suo corpo ravvicinati: la Salomè di Lavia è svestita di ogni fragilità, di ogni segreto. Per "giustificare" il suo omicidio, la scabrosità decadente di Salomè, tutti i registi le hanno sempre dato la possibilità di potersi "scusare". Tutti, a partire da Strauss. Non si è mai riusciti ad accettare pienamente il fatto che Salomè, l'eroina dell'opera, fosse colpevole delle sue passioni. La verità però è un'altra, e per questo è necessario che venga rappresentata. Salomè è sensuale e pericolosa, letale ed innamorata: non è una vittima, una bianca fanciulla innocente. Salomè è una carnefice, perché rappresenta il mistero dell'amore in tutta la sua potenza distruttiva. In una parola, Salomè è «mostruosa».
Lavia fa un passo indietro, e ritrova lei, l'archetipo biblico della femme fatale, il "mostro" che Erode la accusa di essere. La Salomè di Lavia è una donna sublime. Travolta e posseduta dalla passione, lei «brandisce le vesti come coltelli». La voce di Jochanaan proviene da una fossa e la colpisce direttamente nelle viscere, nel bacino. Quando le viene portata la testa di Jochanaan, questa emerge dalle viscere dell'Inferno, spaccando la crosta terrestre. Una donna come Salomè non può baciare una testa: non ha la tenerezza necessaria. Questa, invece, vi si siede sopra, e poi vi si stende per il lungo.
«La testa del mio spettacolo è la verità che annienta tutto quello che c’era stato prima. Ed è proprio adagiandosi su quella testa che Salomè emana una profonda sensualità», spiega Lavia. Una Salomè che non ha nulla da invidiare alle sue consorelle, se non l'arbitrarietà del proprio destino. Un bacio comporterebbe l'uso delle sole labbra, ma lei sceglie di possedere la testa con tutto il suo corpo. Perché è così che nasce Salomè: dalla rappresentazione di un desiderio consapevole e totale, ma osceno. Incurante dello scandalo. Distesa sulla testa di Jochanaan come su un talamo, Salomè muore posseduta dalla verità che lei stessa incarna: il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte.
Salomè di Gabriele Lavia. Fonte: Emilia Romagna Creativa.
Fonti bibliografiche:
(1) Arbasino, A.(a cura di) La Salomè Salomè di Wilde e di Beardsdley - Wilde, O.Salomè, VII ed., BUR Rizzoli, Milano, 2017, p. 9.
(2) Wilde, O., Salomè, VII ed., BUR Rizzoli, Milano, 2017, p 141.
(3) Ibidem, p.173.
(4) Ibidem, p.169.
(5) Erhardt, O., Richard Strauss, la vita e l'opera, Ricordi, 1957.
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