Di Sara Lodi
Qualcuno conosce Pina Bausch? Io, personalmente, prima di sostenere un esame sulla storia della danza, no. Perciò vorrei che questo articolo fosse la giusta occasione per avvicinare i lettori a questa straordinaria interprete e coreografa. Questa artista, oltre ad aver allestito spettacoli di grande impatto visivo ed emotivo, ha scandagliato in profondità l’animo umano, offrendoci la possibilità di riflettere sull’importanza dell’Esperienza, che si articola nella relazione con l’Altro e nel modo in cui i corpi interagiscono con i Luoghi. In particolare, mi soffermerò sugli spettacoli creati in e per l’Italia, la cui fruizione porta lo spettatore a vedere la trasposizione “gigante” del malessere interiore dell’uomo.
Per la danzatrice, ogni ballerino della compagnia è essenziale, in quanto portatore di vissuti diversi e ugualmente importanti. Scrive la Bausch ne Le coreografie del viaggio: «Il nostro modo di lavorare ha sempre a che vedere con noi stessi, con la nostra vita, con le esperienze che ci cambiano, con i luoghi in cui ci troviamo e anche con tutto quello che succede nel momento in cui stiamo lavorando sul pezzo».
Ma in cosa consiste questo metodo? La coreografa, durante il lavoro in sala prove, fornisce una serie di input - domande, visioni, frammenti di video, che possono anche non avere attinenza con il tema dello spettacolo - ai danzatori, che devono rispondere improvvisando. Non tutto il materiale raccolto finirà nello spettacolo, ma sicuramente servirà da struttura portante per la finale sintesi drammaturgica. I danzatori sono chiamati a mettersi a nudo, a condividere paure, sogni e desideri con gli altri membri della compagnia. I frammenti di interiorità che ne usciranno, saranno vitali per la creazione della coreografia, che costituirà un unico potente e coinvolgente disegno. E proprio perché si rappresenta il subconscio, spesso le scene non sono legate da un senso logico, e le reazioni del pubblico sono emotive, istintive. Quando invece si cerca di interpellare la razionalità come metro di giudizio, allora ci si deve arrendere all’impossibilità di interpretarle attraverso un unico punto di vista. D'altronde i suoi Stücke di teatro sono l’esito di un lavoro plurimo, dell’unione di più anime, che esige di essere seguito liberamente dai propri osservatori.
Per capire il motivo che ha spinto la Bausch a spostare la sua attenzione sulle città metropolitane, bisogna intendere il suo lavoro come una costante dialettica tra mondo interiore (abitato da ossessioni, pulsioni, desideri repressi e inappagati) e mondo esteriore come proiezione del malessere dell’uomo. La città diventa manifestazione su larga scala del malessere individuale, una sorta di grande contenitore di uomini con tutti i loro problemi. Il progetto sulle città nasce allora come espediente per conoscere se stessi attraverso l’esplorazione del mondo. Per rendere possibile questo lavoro, la Bausch trascorre tre settimane in ogni città, che corrisponde circa alla durate delle prove.
Trailer di Viktor di Pina Bausch
Il repertorio di questo grande progetto si apre con lo spettacolo Viktor del 1986, il primo dedicato alla città di Roma. Prima di allora, Bausch era già stata nella capitale nel 1982, dove aveva presentato due dei suoi spettacoli, Café Müller e 1980. In quell’occasione ha conosciuto da vicino gli usi, costumi, abitudini e musiche italiani e ne ha fatto tesoro per l’allestimento degli spettacoli successivi.
La Roma di questo spettacolo è cupa, fosca e soprattutto caotica, e fa da sfondo ad uomini che «si autodistruggono, scaricano sugli altri i loro fardelli, si tormentano e approfittano dei loro handicap fisici per ottenere dei vantaggi». Eppure, quando sembra che la sofferenza sia troppa da sopportare, la Bausch rassicura e dice che attraverso il dolore possiamo rafforzarci e stare meglio - un grande messaggio di speranza questo, che può essere di conforto a quanti stanno attraversando un periodo difficile.
La Roma del secondo spettacolo, O Dido, debuttato nel 1999, è invece meno triste: a suggerircelo intervengono anche i danzatori avvolti nei classici asciugamani bianchi, durante una scena ambientata alle terme, mentre ridono e scherzano, alzando i calici pieni di vino e invitando il pubblico a bere con loro.
Il viaggio attraverso l’Italia prosegue con Palermo Palermo, realizzato nel 1989. Lo metto per ultimo, pur non essendolo a livello cronologico, perché porta in scena un elemento innovativo, che manca negli altri spettacoli della Bausch: il bisogno dell’altro. Infatti, nonostante il clima di generale desolazione - il palco è ingombro di rifiuti solidi e liquidi e di macerie di muro - i danzattori (attori che danzano) si fanno largo tra gli oggetti e cercano di supportarsi a vicenda per non cadere. Vediamo donne trafelate in abito da sera che indossano tacchi a spillo e si inciampano; Jan Minarik, lo storico interprete della compagnia Bausch, che allestisce una baracca in un angolo, quasi a riprodurre il giaciglio squallido di un senzatetto. I danzattori si rivolgono spesso al pubblico, gli fanno delle domande oppure raccontano delle storielle, ma nel farlo, proprio per via dell’assurdità delle loro azioni, producono quell’effetto di straniamento per cui è impossibile immedesimarsi. Alla fine del primo tempo, un danzatore sfila sul proscenio con un cartellone con su scritto “intervallo” e le luci si accendono.
Immagino la reazione del pubblico e mi viene da sorridere, perché io sarei sconvolta. Palermo Palermo colpisce per la mise en place di tutti questi elementi facilmente riconducibili alla palermitanità, ed è anche per questo motivo che è stato tanto criticato: perché propone aspetti quasi stereotipati, rischiando di ostacolare la libera interpretazione dello spettacolo. Per ovviare a questo rischio, come dicevo all’inizio, bisogna prendere la città e “metterla da parte”, ovvero non considerarla come il punto di partenza per la realizzazione dello spettacolo, ma come pretesto per conoscersi e far conoscere agli spettatori una Palermo esperita in maniera unica da ciascun danzatore.
Per concludere, è necessario ribadire che il senso del lavoro della Bausch consiste in un’instancabile ricerca: non esistono punti di arrivo fissi e determinati, esiste solo l’Esperienza, meravigliosa, complessa e unica, perché condotta da uomini, ciascuno diverso dall’altro e oltremodo prezioso.
Grazie al rapporto con l’Altro e con i Luoghi, l’Interiorità diventa oggetto della rappresentazione, e al contempo soggetto che giudica, dando vita ad una molteplicità di sguardi e punti di vista che non fanno mai passare di moda gli spettacoli della Bausch.
Commenti
Posta un commento