Il pianoforte: in cammino verso la Bellezza

Di Gabriele Salerno

Giovane uomo al pianoforte, di Gustave Caillebotte. 1876


IL PIANOFORTE: UNO STRUMENTO FACILE?

Una delle ragioni che rendono il pianoforte uno strumento dal forte appeal per chi si appresta per la prima volta allo studio di uno strumento musicale, sono certo debba ritrovarsi nella sua immediatezza. Mi spiego meglio.

Chiunque provi ad imbracciare un violino e provi a sfregarne le corde con un archetto per la prima volta, senza alcuna preparazione pregressa, difficilmente saprà ricavarne un solo suono vagamente orecchiabile. In primo luogo perché il violino, come gli altri strumenti della famiglia degli archi, necessita di un’attenta accordatura da parte dell’esecutore e, secondariamente, perché bisognerà avere qualche nozione elementare di tecnica dell’archetto per saper adeguatamente sfregare le sue corde senza renderlo un “grattugiofono” dal suono orribile. 

Nel pianoforte, le corde all’interno della cassa armonica vengono fatte vibrare per percussione grazie a un complesso sistema di martelletti, a loro volta collegati agli 88 tasti bianchi e neri. Non mi dilungherò oltre sugli aspetti squisitamente tecnici, ma accontentatevi di sapere che la complessità della meccanica interna a un pianoforte è inversamente proporzionale alla difficoltà con cui si può produrre un suono attraverso di esso: vi basterà infatti premere uno qualsiasi dei suoi tasti e immediatamente ne verrà fuori un suono perfettamente intonato. Questo perché è sempre un tecnico accordatore a occuparsi dell’accordatura. Raramente ho saputo di pianisti che sapessero anche accordare il proprio strumento. 

Sotto questo profilo, il pianoforte può donare qualche gratificazione anche a colui che, senza alcuna nozione di teoria musicale o di tecnica pianistica, si diletti a ricreare qualche melodia “a orecchio”, premendo i tasti anche solo con un dito. 

Ciò detto, non vi nasconderò per ancora una sola riga che questa immediatezza sia fumo negli occhi per lo studente che intenda fare del pianoforte la sua professione, scoprirne le innumerevoli possibilità espressive e lo sterminato repertorio. 

Se recuperiamo i programmi ministeriali del vecchio ordinamento dei conservatori di musica italiani, leggiamo che la durata degli studi prevista per il pianoforte è di ben dieci anni (5 anni di corso inferiore, 3 di corso medio e 2 di corso superiore) e non vi faccio mistero del fatto che, al termine degli studi accademici, quello che si staglia dinanzi a un giovane neodiplomato è un cammino di approfondimento e perfezionamento che dura tutta una vita.

Ma cosa significa davvero studiare pianoforte? Quali risorse mentali, fisiche ed emotive vengono attivate quando un essere umano si dedica a questo apprendimento?


At the Piano, di Albert Edelfelt. 1884


STUDIARE IL PIANOFORTE: LA CONQUISTA DEL PARNASO

Studiare e suonare il pianoforte intorno alla fine del XVIII secolo era senz’altro un’impresa relativamente facile. In quest’epoca, è vero, si delineano già diversi approcci alla prassi esecutiva: basti pensare alla pessima opinione che aveva Mozart del modo di suonare di Clementi o alla frequenza con cui Beethoven rompeva i martelletti dei pianoforti a causa della forza fisica che impiegava per suonarli. 

Si può dunque parlare di differenti stili interpretativi, che tuttavia riguardano il repertorio estremamente limitato di uno strumento nato da poco più di mezzo secolo. 

Oggi suonare il pianoforte è un’esperienza radicalmente diversa.

Si tratta di uno strumento che ha continuato a evolvere nella meccanica sino ai giorni nostri e questo ha permesso a molti grandi compositori di sperimentare sempre nuove soluzioni timbriche e di far accrescere la componente virtuosistica e spettacolare dell’esecuzione pianistica.

L’attuale repertorio comprende, pur con qualche riserva sulla filologia, circa 300 anni di musica, da Bach a Stockhausen. Questo semplice dato impone al pianista contemporaneo una grande versatilità nello stile esecutivo, che non potrà essere mai lo stesso per tutti gli autori: non si metteranno le mani sulla tastiera in Debussy come in Bach e, se ciò accade, il pianista deve interrogarsi su che cosa ci sia di sbagliato nel suo modo di suonare. 

La padronanza di un repertorio tanto ampio si ottiene solo avendo piena consapevolezza della totalità della tecnica pianistica. Suonare il pianoforte non è infatti una semplice ginnastica digitale, in cui sono solo le dita a produrre il suono schiacciando i tasti, ma richiede, in base al repertorio affrontato, l’impiego di diversi distretti muscolari, coinvolgendo spesso l’intero corpo, da testa a piedi (anch’essi, tra l’altro, richiedono un attento e lungo esercizio per un buon utilizzo dei pedali). In questo senso, ha acquisito sempre maggiore importanza, con l’aumentare delle dimensioni e della solidità dello strumento, il controllo della cosiddetta tecnica del peso, che costituisce la chiave per sfruttare la qualità più importante del pianoforte che, per l’appunto, è quella di poter suonare dal piano al forte, esplorando l’intera gamma dinamica delle sonorità. Tale esplorazione avviene imparando a dosare la pressione esercitata sui tasti, ora con le sole dita, ora trasferendo l’intero peso corporeo dalle spalle e attivando la muscolatura della schiena. Questo aspetto pone in rilievo, più che in altri strumenti, l’importanza del coinvolgimento fisico sperimentato dal pianista durante un’esecuzione.

Nel suo lungo percorso di crescita, chi studia pianoforte deve quindi acquisire sempre nuove e migliorate competenze tecniche, che coincidono spesso con una migliorata consapevolezza corporea, tale da metterlo nelle condizioni di esprimere al meglio la propria idea musicale.

A tal proposito, è significativo notare come un’opera capitale della tecnica pianistica, il “Gradus ad Parnassum” di Muzio Clementi, celi nel titolo la quintessenza dello studio pianistico, per cui solo attraverso il conseguimento della piena abilità tecnica ed esecutiva, quella che gli antichi Greci avrebbero definito techne, si possa ambire alla conquista del Parnaso, il monte sulla cui cima dimorano le Muse, donatrici dell’ispirazione poetica, di quella poiesis che è la creazione artistica, quella facoltà che rende l’artista un vero poeta (colui che fa, che crea).

La situazione ideale in cui mettere alla prova tutto quanto si apprende attraverso le ore di studio giornaliere, caratterizzate da ripetizioni estenuanti e liti con i vicini, è senz’altro il concerto pubblico, una realtà con cui qualsiasi giovane pianista dovrà confrontarsi il prima possibile.


Catherine Vlasto, di John Singer Sargent. dettaglio. 1897

LA PERFORMANCE: IL RECITAL PIANISTICO

Quando al giorno d’oggi pensiamo a un concerto di musica classica, immaginiamo una forma spettacolare molto ben definita nelle sue caratteristiche fondamentali e nella sua liturgia: la sala è buia, solo il palco viene illuminato, il pubblico attende silenziosamente il musicista o il complesso orchestrale, e si predispone ad ascoltare un programma di durata variabile, di solito con un intervallo nel mezzo.

Questo tipo di spettacolo lo definiamo recital e, nel caso preso in oggetto, recital pianistico. 

Si tratta di un’invenzione relativamente recente. Durante il XVIII secolo, infatti, i programmi da concerto prevedevano sempre l’accostamento di generi di musica completamente diversi tra loro: dalla sinfonia all’aria d’opera, dal Lied ai pezzi solistici. Questo era dovuto anche alla presenza di un pubblico scostante, che entrava e usciva dalla sala da concerto quando voleva, che cercava nella musica svago e intrattenimento e a cui non interessava l’ascolto prolungato di un solo genere di musica. Uno dei primi a conferire serietà al recital fu il pianista e direttore d’orchestra Hans von Bülow, che si dice perfino avesse fatto chiudere a chiave le porte della sala da concerto per evitare che il pubblico se ne andasse mentre dirigeva la Nona Sinfonia di Beethoven!

L’idea del recital pianistico come lo conosciamo oggi nasce invece intorno agli anni Trenta dell’Ottocento con Franz Liszt, considerato uno dei più grandi virtuosi del pianoforte di tutti i tempi.

Come detto in precedenza, suonare in concerto di fronte a un pubblico è un aspetto cruciale dell’attività di un pianista, quella che forse lo mette più duramente alla prova dal punto di vista emotivo e psicologico.

A tal proposito, se pensiamo ai cosiddetti Big Five della personalità (ossia i tratti caratterizzanti la personalità di un individuo), scopriamo che il pianista, così come altri interpreti di musica strumentale, quando si trova nel contesto di una esibizione pubblica, vede costantemente chiamati in gioco, in una dialettica serrata, stabilità emotiva e nevroticismo, laddove quest’ultimo mette continuamente in discussione l’altra, attivando sentimenti di ansia e paura. 

Parte del percorso di crescita del pianista sta proprio nel trovare un equilibrio che non comprometta le sue capacità esecutive di fronte a un pubblico. Si tratta di un training psicologico molto delicato, che richiede una frequente sperimentazione di sentimenti negativi, perlopiù bloccanti. 

Quando si è in sala, seduti di fronte a quella bizzarra creatura che è il pianoforte da concerto, con i suoi 88 denti e i suoi 3 metri e più di lunghezza, ci si sente come prossimi ad essere divorati. Gli istanti che precedono l’attacco di un brano, per esempio, possono provocare un terrore irrazionale. Lo espresse bene Charles Rosen (grande pianista e musicologo scomparso nel 2012) nel suo Piano Notes – il pianista e il suo mondo: «L’esperienza insegna che ci si rende conto che si sta per suonare una nota sbagliata una frazione di secondo prima di farlo, ma è ormai troppo tardi per modificare il movimento della mano o del braccio».

Personalmente penso che la tensione nervosa cui si va incontro prima di un’esecuzione pubblica debba essere cavalcata come un puledro di razza che, se si tengono ben salde le redini, può condurre alla vittoria. Questo puledro, nella biochimica corporea, si traduce con una parola: adrenalina, che, se da una parte rende agitati, dall’altra è anche fonte di energia. 


Il Recital, di John Christen Johansen, 1924


PERCHÉ E PER CHI SUONARE
Da quanto considerato finora, verrebbe da chiedersi: che cosa spinge i pianisti, e in generale i musicisti, ad esibirsi in concerto, quando l’amore per la musica si può soddisfare in maniera molto gratificante anche in privato? 

Ritengo nuovamente illuminanti le parole di Rosen: «[…]se sopportiamo viaggi scomodi, alberghi deprimenti, ricevimenti fastidiosi, il terrore e la nausea dell’ansia da palcoscenico, lo facciamo perché ogni esecuzione rappresenta l’occasione di avvicinare l’opera musicale al suo livello ideale di esistenza oggettiva». Non si tratta quindi di suonare per sé stessi o per un pubblico, ma per la musica stessa, per quel fine estetico che coincide con la piena manifestazione dell’Opera d’Arte, contemplabile nella sua bellezza oggettiva.

Se dunque è vero che si suona per la musica, bisogna chiedersi perché si decida di farlo proprio col pianoforte.

Riflettendo sulla mia esperienza, mi piace pensare che sia stato il pianoforte a scegliere me, così come credo che ogni strumento scelga il proprio musicista.

Detto ciò, credo che il pianoforte sia uno strumento capace di donare, allo stesso tempo, una grande gratificazione fisica e spirituale e che in questo risieda la sua caratteristica più attraente. 

Spesso si pensa che la musica sia solo godimento intellettuale, ma per un pianista è anche il piacere fisico di suonare ad avere un ruolo fondamentale nell’esecuzione. Un vecchio pregiudizio estetico ha spesso concepito l’opera musicale come materia astratta e non come materia sonora. Questa forma di idealismo snob vorrebbe il corpo separato dalla mente, considerando il corpo moralmente inferiore a quest’ultima, mentre è evidente come l’espressività della musica per pianoforte sia intrinsecamente legata allo sforzo fisico e al gesto, tanto che in molte opere i movimenti della mano e del braccio sembrano far parte della concezione musicale stessa. In questo senso, per quanto il pianoforte sia uno strumento moderno, esso riesce a recuperare l’elemento più danzante, coreografico e, per certi versi, più primitivo della musica, in quanto più corporeo.

Suonare il pianoforte significa, in definitiva, sperimentare e trovare quell’equilibrio tra corpo e mente che è la base da cui cominciare un cammino che conduca, da un lato, al perfezionamento di sé e, dall’altro, alla vera Bellezza.

Half Naked Pianist, di Yiannis Tsaroychis. 1971

Commenti