Di Federico Rossato
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Shinji Ikari, protagonista dell'anime Neon Genesis Evangelion (1995-1996) |
Parlare di Neon Genesis Evangelion, la serie anime di culto partorita dallo studio Gainax sotto la direzione di Hideaki Anno (il cui film sequel è recentemente tornato al cinema), è complesso. Non tanto perché non ci sia di cui discutere, anzi, e nemmeno perché negli anni siano stati metaforicamente versati ettolitri d’inchiostro. Il problema sta alla base, nell’opera stessa, chiusa ermeticamente attraverso mosaici di riflessioni e riferimenti dalla trama così fitta che sembra quasi impossibile distinguere il dettaglio dall’universale e viceversa.
Provare a scrivere qualche riga su Evangelion riesce a far comprendere fino in fondo la battaglia contro i mulini a vento di Don Chisciotte: ad ogni frase parrebbe quasi di commettere un crimine contro il venerabile e tremendo figlio di Anno.
Nonostante questa spada di Damocle che minaccia costantemente le mani di chi tenta l'azzardo, proviamo a rispondere alla domanda più facile e complessa che potrebbe mai essere posta su questo caleidoscopio di meraviglie: “Perché mai dovrei guardare Neon Genesis Evangelion?”.
Iniziamo con un argomento di una banalità disarmante, ma mai abbastanza valorizzato: Evangelion è stata una frattura nella storia del medium, creando un prima ed un dopo. Storicamente abbiamo avuto rari casi di serie altrettanto fortunate, capaci di portare all’attenzione del grande pubblico prodotti tutto fuorché di mero intrattenimento. Nonostante una forma classicheggiante e, a primo acchito, forse persino noiosa, si celava in ogni singolo frame uno spirito che ruggiva tutto meno che mediocrità. Se Cowboy Bebop è il canto del cigno del percorso artistico post-modernista degli anni ‘90, NGE è il suo apogeo.
Provare a sezionare la serie per cogliere tutte le ispirazioni ed i riferimenti introdotti da Gainax sarebbe follia pura. Tuttavia tra Akira, Berserk, Devilman, Ultraman, gli orizzonti terrificanti di Philip K. Dick e l’Angst di Kierkegaard possiamo comunque vedere l'anime come un ricettacolo che accoglie ogni manifestazione della riflessione umana, dalla filosofia all’estetica passando per una spietata analisi psicologica.
Per farsi un’idea della cosa, basti pensare alla sinossi dell’opera: in una Terra devastata da un evento apocalittico (il Second Impact), un gruppo di ragazzini devono entrare in giganteschi automi (gli EVA) emotivamente quasi indistinguibili da una persona per affrontare gli Angeli, manifestazioni simil-divine che vengono da luoghi sconosciuti e minacciano il genere umano oltre la loro capacità di comprensione.
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L'EVA 01 in Neon Genesis Evangelion |
Guardare Evangelion implica avvicinare l’occhio ad un cannocchiale intarsiato ad arte rivolto verso la volta celeste dove si ricama il futuro del medium. Se il vostro cuore fosse diventato d’acciaio guardando Fullmetal Alchemist: Brotherhood, se vi foste chiesti cosa ci fosse oltre l’orizzonte con Attack on Titan, se le lacrime dovessero avervi solcato il volto con Devilman: Crybaby o vi foste spezzati con Monster, sappiate che le radici di ciò sono fermamente ancorate nel 1995, quando Hideaki Anno scrisse l’inizio della nostra vicenda, attraverso quell'Impact su Neo Tokyo 3 che ha segnato la storia.
Persino grandi registi come Wes Anderson (al secolo come l’uomo dai colori pastello che ci portò quella perla di Grand Budapest Hotel) o attori di fama internazionale, ad esempio la buon’anima di Robin Williams, hanno dichiarato d’essere stati stregati dalla storia di Shinji, il nostro protagonista pieno di macchie e ripieno di paure.
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Robin Williams con l'action figure di un Angelo in One Hour Photo (2002) |
Il bello, però, è che l’influenza di Anno e della sua opera non termina ai confini della cinematografia, ma esonda travolgendo chiunque offra il proprio cuore. Basterebbe citare i game designer Yoko Taro, recentemente balzato sotto i riflettori del grande pubblico grazie ai suoi Nier e Nier: Automata, ed Hideo Kojima, padre di alcune delle più grandi innovazioni del medium videoludico attraverso la Metal Gear Saga e Death Stranding.
Tutto questo perché NGE riesce a superare elegantemente gli stilemi classici del genere, nonché della tragedia stessa, arrivando a parlare al proprio spettatore in e fuori dalla metafora; proprio come il colonnello Campbell in Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (del sopra citato Kojima) che irrompe metanarrativamente, sfondando la quarta parete, e ci pone davanti la domanda più complessa che un uomo possa rivolgersi dinanzi uno specchio: 《Chi sono?》.
Perché se il recente Black Mirror ci pone davanti, quasi sfacciatamente, alla stessa domanda attraverso lo schermo nero, Anno e Kojima scelgono una strada più elegante dove la riflessione non termina alla dichiarazione del dilemma. Piuttosto si cerca di raffigurare quella “Commedia umana” di cui parlava Balzac attraverso dei simulacri della nostra miseria per arrivare all’ultimo, allegorico e malinconico capitolo della nostra autocoscienza.
Seconda argomentazione di stampo strettamente psicologico: Evangelion sta parlando alla tua persona della tua persona attraverso la tua persona. Sembra una supercazzola del conte Mascetti e non escludo che per alcuni potrebbe anche esserlo, ma mi venga dato il tempo di spiegarmi peggio. Nell’argomentazione precedente abbiamo accennato al fatto che l’innovazione di Anno risieda nella sua riflessione intorno all’uomo, ora cerchiamo di sviscerarla meglio, abbandonando le vesti degli storici per quelle di coloro che navigano degli abissi della psiche. Spezzettiamo la frase ed andiamo per punti.
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Asuka Sōryū Langley in Neon Genesis Evangelion |
Evangelion sta parlando alla tua persona perché veicola una particolare storia, tra le quali componenti c’è l’intrinseca necessità di un pubblico lì a sentirla. Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma all’interno di un panorama produttivo che o cerca di depennnare i propri doveri narrativi allo spettatore (Cfr. Bling Ring di Sofia Coppola, 2013), o rimastica così tanto un singolo concetto da portare a dire «[...] tu non sei né caldo né freddo, e quindi, visto che sei solo tiepido, io apro la bocca e ti sputo fuori!» (da Gangs of New York di Martin Scorsese, 2002), una narrativa chiara, sincera ed intellettualmente onesta è qualcosa da apprezzare e tenere in alta considerazione, soprattutto per gli esiti che vedremo successivamente.
Evangelion sta parlando alla tua persona della tua persona. Questo secondo “persona” indica, più che noi come singoli individui, l’Uomo, ovvero quel concetto astratto con cui andiamo ad intendere l’umanità nella sua totalità.
NGE racconta una trama che narra dell’umanità in tutta la sua grazia e in tutta la sua miseria. Dovendo fare ciò, Anno adotta delle soluzioni meravigliosamente abominevoli per rendere cosa voglia dire scandagliare quell'abisso che è l’essenza dell’Uomo, quel teatro grottesco dove gli attori saltellano spasmodicamente. Prima fra tutte è la scelta del sostrato di tutta la sua riflessione: l’incomunicabilità.
L’Uomo è un concetto ineffabile che trascende le nostre capacità di definizione, poiché costantemente produciamo confini troppo stretti e laschi, perdendo ciò a cui avremmo voluto dare un nome preciso. Evangelion parla di questa atroce incomunicabilità che attraversa ogni rapporto umano, ovvero ogni elemento del reale.
Nessuno riesce veramente ad aprire se stesso al prossimo, divenendo sempre più distante dalla realtà e tramutandosi in una bestia aliena da tutto e tutti. Questo è quello che attraversa l’umanità nella sua generalità, un monito a tentare d’essere migliori di ciò che siamo attraverso una quotidiana battaglia contro la tendenza a sfuocarci (come il personaggio di Robin Williams in Harry a pezzi di Woody Allen).
Evangelion sta parlando alla tua persona della tua persona attraverso la tua persona.
Siamo arrivati al centro nevralgico sul perché guardare quest’opera monumentale: NGE ti sta narrando dell’umanità attraverso la tua miseria. Perché, appena iniziata la serie, si odia profondamente Shinji, il sopracitato protagonista? La risposta è che lui incarna la nostra umanità e siamo disgustati da essa, nonostante sia la cosa più vicina a noi che si possa concepire.
I personaggi, infatti, non sono che un caleidoscopio di tutto ciò che siamo noi singoli individui. Siamo Shinji, Rei, Asuka, Misato, Gendo, Kaworu e tutti quei personaggi che incarnano universi capaci di raccontare di una parte specifica della nostra persona.
Riprendendo quanto detto precedentemente su Black Mirror, eccoci alla differenza sostanziale: mentre nel primo abbiamo uno specchio dove vedere il Quasimodo che si nasconde in ognuno di noi, con Evangelion ci vediamo, riconosciamo e offriamo al tentativo d’andare oltre la denuncia delle nostre aberrazioni.
Perché criticare è un lavoro tutto sommato facile: rischiamo relativamente poco a puntare il dito facendo saltare all’occhio quanto di storto ci compaia davanti. Lavorare su ciò che vediamo allo specchio, invece, è tutto un altro paio di maniche. Basti pensare a ciò che dice il personaggio di Asuka, in un passaggio dal film The End of Evangelion: 《Nella vita hai solo te stesso, eppure non hai ancora imparato a volerti bene》.
Il bello di ciò è che, oltre le apparenze, questo non è nemmeno un classico discorso paternalistico da libretto di self help di stampo individualistico. Piuttosto è un’esortazione ad amarsi per poter amare il prossimo, cercando di superare la barriera dell’incomunicabilità a cui si accennava precedentemente.
Riprendendo una frase forse inflazionata, ma meravigliosamente carica di significato, del buon BoJack Horseman: «In questo mondo terrificante, tutto ciò che abbiamo sono le connessioni che creiamo». Perché se è vero che l’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio e ci ha condotti a passo d’oca a fare le cose più abiette, è altrettanto vero che nel disvelamento all’altro c’è una forma d’amore che può diventare le ali della ribellione attraverso cui spezzare le catene di quel circolo vizioso, donando alla persona una forza infinita.
Questo perché, come ripetuto più e più volte da diversi personaggi, abbiamo un bisogno immenso degli altri: abbandonare l’EVA significherebbe abbandonare l’umanità e nessuno di noi sarebbe disposto a questo. Quindi, davanti alla fine del mondo, non rimane che guardare nello specchio di Neon Genesis Evangelion per tentare, nonostante la nostra incommensurabile deformità, d’amarci ed amare il prossimo. Riprendendo Jep Gambardella, protagonista di La grande bellezza di Paolo Sorrentino: 《Queste sono le tue menzogne e le tue fragilità. [...] (hai) una vita devastata, come tutti noi. Allora, invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto. Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro... o no?》.
Queste sono le due principali argomentazioni, almeno a parere di chi scrive, con cui rispondere al perché investire ore della propria vita a vedere gente chiedersi che senso abbia continuare a vivere.
Neon Genesis Evangelion non è un prodotto che vuole rispondere alla domanda che si pone in principio, ma vuole fornire degli strumenti di fortuna per quei coraggiosi disposti a provare a trovare un senso all’assurdità dell’esistenza. Vuole ricordare a tutti coloro che temono di rimanere soli, per volontà o per crudele Fato, che così non sarà, se disposti a tendere una mano oltre le cicatrici che velano la parte più pura ed umana dell’essere, rivelando nel riflesso dell’arte la parte più autentica di ciò che significa essere persone.
Scegliere di liberarsi e liberare l’umanità dalla non-esistenza, vivendo forse per la prima volta: a chiunque riesca in questo balzo, Neon Genesis Evangelion dice “Congratulazioni” tra scroscianti applausi.
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I personaggi principali in The End of Evangelion |
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