Di Davide Gravina
Il 21 Luglio di 66 anni fa nasceva il più importante regista ungherese della storia. La grandezza di Bela Tarr è stata riconosciuta più volte, ma in questo articolo mi concentrerò su un singolo aspetto della sua poetica: il suo neorealismo.
Il neorealismo è stata una corrente cinematografica nata nel 1943 con Ossessione di Visconti e conclusa nel 1952 con Umberto D di De Sica. Pur essendo un movimento sorto spontaneamente e quindi non del tutto omogeneo, si possono esporre le sue caratteristiche primarie: costante utilizzo di attori non professionisti, scene girate in esterno e non in studio, grande attenzione rivolta ad azioni quotidiane ed una conformità nelle trame, che trattano la situazione economica e morale delle classi disagiate nel dopoguerra italiano.
Come può un regista ungherese, nato nel 1955, incorporare lo spirito del movimento più importante che la storia del cinema italiano abbia mai avuto?
Prima di dare una risposta, è doveroso fare una piccola premessa. La carriera di Tarr è divisa in due parti: la prima inizia con Nido Familiare del 1979 e termina con Almanacco d’autunno del 1984; la seconda invece riguarda i suoi ultimi film, da Perdizione del 1988 a Il cavallo di Torino del 2011. Nonostante le differenze siano evidenti, il suo neorealismo è una cosante.
Una delle numerose risposte che si possono fornire alla domanda cardine di questo articolo risiede nelle trame che Bela Tarr decide di mettere in scena. Nella prima parte della sua carriera si concentra sulla vita di famiglie o coppie ungheresi, in stabile difficoltà economica e con crescenti problemi sentimentali. Nella seconda parte affronta invece problemi di più ampio respiro, focalizzandosi sull’intera umanità, sulla sua paura del futuro, sulla sua fine e sulla sua impotenza di fronte ad essa. I contenuti esaminati da Tarr, soprattutto nella prima parte della sua carriera, possono essere accomunati a quelli che caratterizzano il neorealismo italiano.
Per poter dar prova di questa comunanza mi concentro su due film: il già citato Umberto D di De Sica e Rapporti prefabbricati del 1982 di Bela Tarr. I due film sono punti cardine di due diverse espressioni poetiche, il neorealismo italiano e la prima parte di carriera del regista ungherese, con sorprendenti somiglianze. Il film di De Sica narra di Umberto Domenico Ferrari (Carlo Battisti), un ex impiegato in pensione, che viene espulso dalla sua casa poiché non è più in grado di pagare l’affitto. Una volta scoperta la notizia, Umberto medita il suicidio. Rapporti prefabbricati racconta, invece, della crisi di una famiglia ungherese. I sogni di benessere della madre Feleség (Judit Pogány) si scontrano con la totale passività del padre Férj (Róbert Koltai). La coppia è costretta ad affrontare, oltre ai loro problemi personali, una serie di complicazioni in ambito lavorativo e finanziario. I due registi vogliono raccontare la storia di persone comuni che vivono la loro vita quotidiana cercando di sopravvivere al loro meglio.
Sopra: Judit Pogány e Róbert Koltai in Rapporti prefabbricati Sotto: Carlo Battisti in Umberto D |
E’ possibile trovare altre somiglianze tra Bela Tarr ed il neorealismo: una di queste coincide con la grande importanza che l’Ungheria comunista riveste nel cinema del regista ungherese.
Come già detto, il neorealismo si concentra sull’attualità dell’epoca. Bela Tarr segue lo stesso principio. Il regista, infatti, si focalizza sul suo presente, sulla sua terra e porta in scena la reale condizione che gli impiegati ungheresi hanno vissuto negli anni ’70 ed ’80.
Film esemplificativo sotto questo punto di vista è il già citato Nido Familiare. Il film racconta di Laci (László Horváth) e di sua moglie Irén (Laszlone Horvath). Laci, appena rientrato dal servizio militare, è costretto a vivere, con Irén e sua figlia, a casa dei suoi genitori, in attesa che il piano alloggi gli fornisca un appartamento. E’ molto forte l’intento di Tarr di fornire un reale sguardo alle difficoltà che incontrano i suoi connazionali. Risulta di grande impatto, in questo contesto, la scena in cui Irén si reca all’ufficio apposito per richiedere un appartamento. L’impiegato, insensibile ai gravi problemi che devono affrontare Irén e la sua famiglia, le nega ciò che le spetterebbe di diritto con una motivazione ancora più atroce della scena stessa: Irén non può avere un appartamento poiché spetta prima ad altre famiglie in condizioni peggiori della sua.
Oltre agli aspetti contenutistici, ciò che davvero sorprende è il legame che troviamo tra Bela Tarr ed il neorealismo anche, e forse soprattutto, per quanto riguarda alcuni tratti stilistici.
Lo stile, così come i contenuti, cambiano a seconda che ci si riferisca alla prima o alla seconda parte della carriera del regista che oggi compie gli anni. Nonostante queste differenze, una caratteristica resta costante: Bela Tarr gira le scene in ambienti reali. Non rinuncia mai a questo tipo di riprese per dare sempre maggior risalto alle azioni quotidiane.
Eccezion fatta per questa costante, lo stile della prima parte si differenzia molto rispetto a quello della seconda. Nei suoi primi quattro film Tarr non ricorre sempre al bianco e nero ed utilizza molto l’uso della macchina a spalla. La seconda parte di carriera è invece contraddistinta da un costante utilizzo del bianco e nero e soprattutto da lunghi piani sequenza. Questo stile registico non è propriamente caratteristico dei neorealisti. Nonostante questo, sono proprio alcune scene girate in piano sequenza che rendono Bela Tarr il regista che ha saputo trasportare, meglio di tutti, l’intimità neorealista nel cinema contemporaneo.
Per spiegare ciò, propongo tre esempi: il primo esempio è una scena tratta dal già più volte menzionato Umberto D; il secondo e terzo esempio si trovano in due film diretti da Bela Tarr: Satantango (1994) e Il cavallo di Torino (2011).
La scena nel film di De Sica che voglio sottolineare vede protagonista Maria (Maria Pia Casilio), la serva della casa da cui Umberto è stato sfrattato. Maria si alza dal letto e prepara il caffè. Tutto viene ripreso con un lungo piano sequenza in cui non accade nulla di importante ai fini della narrazione.
Scena tratta da Umberto D
Troviamo una scena simile, non per contenuto, ma per significato e messa in scena, anche nei film di Bela Tarr appena citati.
Satantango narra di una sperduta fattoria collettiva che deve far fronte a due imbroglioni, che hanno convinto gli abitanti ad investire i propri soldi per formare un’altra comunità. Mi concentrerò sulla scena che ritengo la più importante, poiché esplicativa del contenuto del film e dello stile di Tarr. Due dei dodici contadini che hanno per lungo tempo risparmiato per mantenere viva la speranza di potersene andare, contano e si dividono i soldi sul tavolo della cucina. La macchina da presa ci mostra l’intera spartizione del denaro.
Il cavallo di Torino narra, invece, la vita di un cocchiere, di sua figlia e del loro cavallo. Il cocchiere e la figlia, ogni giorno, mangiano patate appena sbollentate e la macchina da presa ci mostra, innumerevoli volte, loro due seduti al tavolo mentre pranzano.
Scena da Il cavallo di Torino (2011) |
Perché Bela Tarr decide di mostrarci l’intera spartizione del denaro? Perché ci mostra infinite volte il cocchiere e sua figlia che pranzano?
Le domande, oltre a trovare un responso nel singolo, forse troppo superficiale, significato del film (avarizia in Satantango e monotonia ne Il cavallo di Torino) trovano una reale risposta nella poetica del regista. Questa si basa su alcuni fondamenti del neorealismo.
Uno di questi vien descritto meglio di tutti da De Sica pochi mesi prima l’inizio delle riprese di uno dei suoi film più famosi (Ladri di biciclette, del 1948): «Rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca.».
Questa frase sembra essere la miglior descrizione che si possa fare sul cinema di Bela Tarr. Lo stesso regista, riferendosi al suo ultimo film, esprime parole che spiegano meglio di qualsiasi altre il suo legame con quel movimento italiano che ha profondamente cambiato la storia del cinema: «Quello che ho fatto nel mio film è stato riprodurre la vita.»
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