"Silence" di Scorsese: il rapporto tra Fede e Ragione

Di Federico Rossato

Una scena del film Silence

1633, Sebastião Rodrigues e Francisco Garupe, due ardenti gesuiti, vengono a sapere che il loro maestro, Cristóvão Ferreira, ha commesso apostasia dopo una lunga ed estenuante tortura in quel del Giappone, decidendo quindi d’imbarcarsi per salvarlo dagli uomini dell’Imperatore che braccano i cristiani come segugi le volpi. Oltre ad essere una sinossi essenziale del film di Martin Scorsese, questa piccola premessa è anche un insulto, poiché parrebbe quasi lasciar intendere un voler parlare della narrativa della pellicola, quando in realtà vuole essere solo uno strumento per arrivare al piano più autentico della discussione: quello dove ci si chiede che rapporto corra tra la Fede in qualcosa e la Ragione.

Iniziamo con due punti fondamentali senza i quali qualsiasi ulteriore pensiero sarebbe una chiacchierata a pane e salame, ovvero due definizioni di cosa sia la Fede e di cosa sia la Ragione. Questo non perché ci si voglia mettere in cattedra, ma perché la maniera migliore di rendere omaggio alla pellicola di Scorsese è quella di studiarla attentamente, consci di quanto sia stato uno dei suoi prodotti più sentiti ed appassionati. 

La Fede, infatti, non è solamente una credenza che aleggia all’interno della scatola cranica di un individuo, come uno yokai rimanendo in tema Giappone. Parliamo di qualcosa di più profondo, intimo, universale ed essenziale, ovvero una conoscenza a priori della verità. Shūsaku Endō, autore del romanzo su cui s’è basato Scorsese, era cosciente di questa prospettiva di verità unitaria intrinseca alla Fede, secondo cui tutto s’è rivelato con Gesù Cristo e conseguentemente nel testo ispirato da Dio, ovvero la Bibbia.

La Ragione, invece, è quella facoltà che noi tradizionalmente poniamo in contrasto alla Fede, poiché l’intendiamo come l’analitica della realtà, una sorta di anatomia di ciò che ci circonda, sterilizzata da qualsiasi tipo di contaminazione ideologica. Senza neanche stare a sottolineare come l’ideologia, termine che viene preso in mano da alcuni come spauracchio contro cui lanciare anatemi e scongiuri, sia un prodotto umano, troppo umano, sfruttando una formula nietzschiana, possiamo anche sottolineare come la Ragione non sia da meno. Persino il razionalista più incallito andrà ad incagliarsi in problemi sistemici apparentemente insolvibili, poiché il mondo va costantemente a rigirare le sabbie della nostra clessidra mentale e noi con essa, piccoli granelli di polvere al suo interno.

Perché queste piccole precisazioni? Perché in Silence, quindi anche nella discussione sul rapporto tra Fede e Ragione, è abbastanza importante spogliarsi di tutti quei pregiudizi che andrebbero ad inficiare la comprensione sia del messaggio dell’opera, oltre a depauperare un eventuale riflessione intorno al tema della verità. Scorsese ed Endō, infatti, non vogliono tanto raccontare una storia fine a se stessa sulla spiritualità e la resilienza che può concedere Dio, ma piuttosto far cogliere l’immutabilità di ciò e di chi è vero dinanzi alla divinità.


Una scena del film Silence


Sebastião e Francisco
, non sono due semplici personaggi atti a rappresentare la fede cristiana all’interno di un paese loro ostile, ma simulacri attraverso cui narrare due diversi modi del darsi della stessa unica verità.

Francisco simboleggia una verità più originariamente sincera ed incontenibile, quasi francescana, che è pronta al martirio pur di continuare a riaffermarsi e riaffermare la propria forza. Riprendendo parole attribuite a Shakespeare, «La verità è verità e il tempo non può rendere falso ciò che un tempo fu vero».

Sebastião, invece, porta con sé il peso di una verità non meno certa di sé, ma conscia di come la propria sopravvivenza sia più importante di un teatrale martirio. La verità come fedele compagna silenziosa che si muove ad ogni passo del gesuita e che va difesa nei modi possibili al fedele in base alla propria condizione. Si perde, forse, quella completa abnegazione verso la rivelazione, ma si porta avanti la battaglia più importante per il credente, ovvero non tanto quella contro gli eretici, ma quella contro il tempo. Vincere il tempo, facendo prosperare ancora ed ancora la verità, significa portare avanti il vero messaggio apostolico, almeno secondo Sebastião e Ferreira.

Per entrare, finalmente, nel vivo del tema Fede-Ragione, è più che opportuno citare un passaggio dell’Omelia sul Prologo del quarto Vangelo di Giovanni Scoto Eriugena, uno dei più importanti filosofi del medioevo occidentale:

«Pietro è proposto come modello dell'azione e della fede. Giovanni, il teologo, è invece simbolo della contemplazione e della scienza. (...) Entrambi corrono però verso il monumento sepolcrale. Il sepolcro di Cristo è la Scrittura divina, nella quale i misteri della sua divinità e della sua umanità sono coperti dal peso della lettera, come da una pietra tombale. Ma Giovanni corre più velocemente di Pietro, precedendolo. Infatti la virtù della contemplazione, già purificata, è in grado di penetrare con più acutezza e velocità gli intimi segreti delle parole scritte da Dio di quanto non possa l'efficacia dell'azione ancora necessitante di purificazione. E tuttavia il primo a entrare nel sepolcro è Pietro, e solo dopo lo segue Giovanni. E così entrambi corrono, ed entrambi entrano. Perché Pietro simbolizza la fede; Giovanni significa l'intelligenza. E perciò, poiché è scritto: «se prima non avrete creduto, non potrete comprendere» (Is 7, 9), è necessario che la fede penetri per prima nel monumento della Scrittura, e che poi, seguendola, entri anche l'intelletto, il cui accesso è reso possibile proprio dalla fede». (1)

Ora, perché prendere il testo di un autore medievale per approfondire uno dei temi del film di Scorsese? Cos’ha da dire un filosofo della corte di Carlo il Calvo ad un film del 2016 tratto da un romanzo del 1966? La risposta è che ha tanto da dire e da dirci, poiché riesce a enucleare perfettamente il punto di secoli di ricerca filosofica-teologica sull’argomento. L’obiettivo che i filosofi medievali si andarono a prefissare, infatti, fu quello di cercare una forma d’armonia tra la Fede e la Ragione.

Ora, proviamo a leggere un po’ dietro le righe di Giovanni Scoto Eriugena. Il sepolcro, infatti, simboleggia il mistero della Fede racchiuso nella Bibbia e, se almeno in partenza, Giovanni è uno Usain Bolt ante litteram, poiché la sua conoscenza teoretica è come una spada sulla quale la scienza è passata come la cote, è costretto, però, a fermarsi alla soglia della verità, la quale gli rimane incomprensibile. Pietro, al contrario, grazie alla Fede, entra per primo nel sepolcro nonostante gli anni sulle articolazioni iniziassero a farsi sentire. La Ragione dev’essere attivata sia prima dell’atto di Fede, poiché va giustificato, sia successivamente, per consolidarlo. Dunque, l’unione di credere e intelligere è una habitudo, ossia una relazione naturale tra due fonti a cui gli uomini possono attingere per trovare una comune verità. Conseguentemente da ciò, usando bene la Ragione (es. evitando di credere bovinamente a gente che grida di seguire il cuore immacolato di Maria o che Marte sia il pianeta rosso, bolscevico e traditor) si trova conferma della verità rivelata, poiché la verità è ragionevole. Allo stesso tempo, solo la luce della Fede permette di usare bene la Ragione e, dunque, di approcciarsi correttamente alla realtà, dal momento che questa è un frutto di Dio. 

Per rendere l’idea, Anselmo d’Aosta scrive una frase passata poi alla storia sull’argomento: «Se non avrete creduto, non capirete». Questo è il motivo per cui, per esempio, il finale del film di Scorsese è estremamente criptico per chi non è riuscito ad empatizzare e risuonare con la Fede del protagonista.


Una scena del film Silence


Dunque, per i medievali la Ragione non è subordinata ciecamente alla Fede, al contrario tentano di dare la massima dignità possibile alla prima in virtù della seconda: è una costante circolarità tra intelligo ut credam (N.d.C. per i non latinisti che ci seguono da casa, «Capisco per credere») e credo ut intelligam («Credo per capire»).

Quindi, come scrive il buon Giovanni Scoto Eriugena, «la vera philosophia è la vera religio e, reciprocamente, la vera religio è la vera philosophia», poiché, se la verità è unica, in quanto è verità di Dio (il quale, stando alla definizione, non è una figura incline a fare scherzoni), non può esserci contraddizione tra la religione e la filosofia, ma sono solamente due percorsi verso la verità che hanno origini e modalità differenti.

Agostino d’Ippona spiega ancora come la vera philosophia sia solo quella dei cristiani, poiché hanno compreso da dove la verità debba essere attinta per poterla studiare e consolidare, superando così qualsiasi posizione scettica del caso (Per Agostino quella di Cicerone, ma è un sentimento che attraverso tutta la storia, basti pensare a Dostoevskij una volta che Ivan Karamazov pronuncia la famosa frase «Se Dio non esiste, allora tutto è permesso» all’interno di quel capolavoro che è I fratelli Karamazov), le quali evidenziavano come le varie dottrine fossero tutte estremamente contraddittorie le une con le altre e che, dunque, la verità fosse oltre le capacità dell’uomo. La vera religio e la vera philosophia, dunque, permettono al cristiano di acquisire una conoscenza certa, più solida di qualsiasi costruzione scientifica e più credibile di qualsiasi credenza. Quella dei medievali, dunque, è un’adesione alla Fede molto critica: seppur non dubitando mai della verità rivelata, hanno l’onestà intellettuale di evidenziarne le problematiche.

Scorsese ed Endō sono coscienti di questo lunghissimo percorso intellettuale e lo descrivono, dilemma dopo dilemma, attraverso quei personaggi che sono più tentativi di risposta che semplici uomini. Calpestare Cristo non significa perdere la Fede quanto credere non implica abbandonare la criticità, ma soprattutto il dolore non porta necessariamente all’alienazione, alla bestialità e alla disumanità. Silence vuole mostrare come il fine di Dio, quindi della verità, ovvero della Ragione e della Fede, sia l’armonia ed un moto d’amore che trascenda qualunque tipo di barriera il mondo vada ponendo dinanzi all’individuo. Questo non per un discorso qualunquista da libricino New Age sulla potenza del volontà o sull’armonia dei chakra, ma per evidenziare quanto un uomo sia un universo capace d’essere molto più di solo se stesso.

Ovviamente potremmo passare diverso tempo a criticare questo tipo di riflessione intorno alla Ragione, la Fede, la verità, Dio, la vita, l’universo e tutto quanto, soprattutto considerando come il pensiero filosofico si sia decisamente evoluto dai tempi di Giovanni Scoto Eriugena ad oggi. Detto ciò, è comunque importante cercare di comprendere le dinamiche più intime ed autentiche di un sincero moto d’amore verso la verità di un uomo la cui opera non è terminata nel 877, ma che, come abbiamo visto, risuona ancora perfettamente nel cuore di un’opera che dire recente sarebbe dire poco, dove il rapporto tra l’insondabilità dell’animo, Dio ed il silenzio costruisce un quieto tempio dove scoprire e riscoprirsi.

Il percorso di Scorsese con Silence, infatti, non mira ad ingozzare lo spettatore con riflessioni fini a se stesse, ma cerca piuttosto di scalpellare via tutto il rumore che s’è incancrenito impedendogli di vedere e vedersi. Attraverso il silenzio, Scorsese ci regala una mastodontica pellicola d’amore per la verità. Nel silenzio, sentiamo il messaggio di quella pellicola. Nella nostra intimità, comprendiamo quella pellicola. Nella nostra comprensione, cogliamo il quieto amore per l’uomo e con esso diamo un nome a quel sentimento: verità.

Una scena del film Silence



Note bibliografiche:

(1) d’Onofrio G.; Storia del pensiero medievale; Roma: Città Nuova; 2013; 4° edizione; pp. 7.

Commenti