“È il cerchio dei remake”, ovvero una riflessione su “Il re leone”

Di Federico Rossato


Scar e le iene in una scena de Il re leone

Quando venne annunciato un remake live action, nel senso lato del termine, de Il re leone, gioiello della corona del Rinascimento Disney, ci fu un moto generale iscrivibile tra la discesa del Messia ed il terrore dei bolscevichi nell’Europa d’inizio novecento. Andare a toccare una simile pellicola di culto, infatti, aveva creato una fiumana di reazioni contrastanti, specialmente tra coloro che con quel film c’erano cresciuti. I più ottimisti vedevano la possibilità di una nuova versione della tanto amata storia, soprattutto considerando l’evoluzione della CGI dopo l’acquisizione della Pixar e dei loro segreti da carbonari. I pessimisti, invece, leggevano l’annuncio con disprezzo, vedendo solo una manovra di marketing fine a se stesso come fu per La bella e la bestia con Hermione Granger, detta Emma Watson per i Babbani, o Maleficent di Stromberg, pellicole nate solamente per riempire i negozi di merchandise e svuotare i portafogli del gentile pubblico astante. Ora, praticamente a due anni di distanza, è forse tempo di tirare una linea di bilancio e chiedersi: “Alla fine della fiera, com’era ‘sto remake?”

Premesse alla trattazione: a) Colui che digita queste parole s’iscrive nella corrente di pensiero di coloro che vedono il bicchiere del film mezzo pieno, ma di veleno. Conseguentemente da ciò, gli si perdoni il piglio da boutade di alcuni passaggi che seguiranno. b) Nonostante voglia essere una riflessione a priori intorno all’annosa questione “remake”, verranno comunque fatti spoiler sulla trama del film che fa da leitmotiv dell’articolo. Dunque, se non aveste ancora visto nessuna versione de Il re leone (il che sarebbe sensazionale: sotto quale sasso siete vissuti tutti questi anni?), sappiate d’essere avvisati e mezzi salvati.

Tralasciando i furry, figure che apprezzerebbero qualunque cosa fosse dotata di pelliccia, foss'anche solo Beppe il cantoniere, famoso per il petto villoso, l’amore per le Peroni del Bar Sport del paese e le battute caustiche sulle mutande della Ferilli, il remake sopracitato venne fatto passare per il rotto della cuffia dalla critica e linciato selvaggiamente dagli appassionati.
Definiamo, però, cosa sia un appassionato, poiché altrimenti potremmo scadere nel ritenerlo chiunque abbia visto anche solo un fotogramma di un prodotto Disney, tralasciando quindi quel minimo di doverosa formazione su come leggere una pellicola. Un appassionato è uno spettatore cosciente di cosa sta guardando, ovvero conosce a grandi linee la grammatica del prodotto che ha tra le mani e sa a chi sia rivolto. Questa definizione, forse persino troppo lasca, viene posta non per supponente elitarismo, ma per distinguere tra coloro che vedono un film acriticamente, come fosse mangime gettato ai porci, e non possono/riescono a cogliere lo sguardo d’insieme del suo contesto dallo spettatore che, al contrario, porta il fardello di vedere i problemi di una pellicola così come il naso spicca sulla faccia.

Confronto tra due frame del live action e il film originale de Il re leone

Il film venne mandato a fare la fine di Luigi XVI di Francia non tanto perché fosse inguardabile, ma perché si manifestava senza alcun tipo d’anima ed aveva, nonostante fosse figlio di un capolavoro degli anni ‘90, lo stesso carisma dei testicoli dei suoi leoni in CGI: inesistente. Era palese, infatti, come tecnicamente fossero state impiegate grandi risorse, questo senza dubbio alcuno, ma ci fosse un concept putrescente all’origine. Il finto realismo, infatti, va ad azzoppare quanto d’interessante ci sarebbe potuto essere: quale senso potrebbe mai avere riascoltare Sarò re di Scar senza poter vedere le sue tronfie smorfie? Perché sciogliersi alle notte di L’amore è nell’aria ‘sta sera se l’unica cosa presente in scena sono due pupazzoni della Trudi? Come fare a sentire che Simba sia effettivamente diventato il successore di Mufasa mentre ascende alla Rupe dei Re? Si dimostra, ancora una volta, come un mezzo tecnico senza una buona direzione artistica con un deciso concept design sia alla stregua di un cucchiaio col buco o un neurone nel cervello di Pillon: inutile.

Si potrebbero passare le ore a fare dietrologie sul perché la Disney abbia optato per un’idea così debole a sostrato del remake di uno dei loro prodotti più celebri (N.d.C. soprattutto dopo l’attenzione riservata anche a prodotti a sé orbitanti come la serie The lion guard per i più piccini), ma questo non è particolarmente interessante, poiché finirebbe tutto ad una discussione a pane e salame. Piuttosto è interessante leggere questo flop artistico, la specifica è necessaria visto il successo al botteghino, nel contesto dei remake disneyani.

Da quando sono emersi dalle profondità del Tartaro, infatti, tutti i remake della casa del sorcio hanno sbancato al botteghino, chi più e che meno, e sono stati presi a colpi di cerbottana ripiena di sputo intriso d’odio dagli appassionati, dei prodotti originali in primo luogo e dei cinefili in seconda battuta. Questo perché hanno fatto da cartina tornasole ad una brutta tendenza artistica, ovvero una forma di avido conservatorismo capitalistico, sintetizzabile nel sempreverde: “Squadra che vince non si cambia”. La Disney, infatti, non aveva e non ha alcuna intenzione a rinnovare le proprie perle del passato, ma calcola piuttosto il margine di profitto che può ottenere mungendo ciecamente i propri prodotti, in parte per finanziare il cuore pulsante del suo gargantuesco pubblico e le briciole a coloro che orbitano loro intorno, asserviti all’idea di un incessantismo che deve garantire un costante getto di denaro in cassa.


Poster promozionale de Il re leone (1994)

Non è un caso, riflettendoci sopra, che i personaggi della Disney si siano andati tutti ad assomigliare nell’ultimo decennio: quand’è l’ultima volta che avete visto un personaggio realmente differente e non il solito poligono con occhi grossi e cartellino “Artisti NSFW di Internet, per favore non siate troppo spietati” appuntato al petto? Senza scomodare delle involontarie avanguardie (Cfr. La carica dei 101), la necessità di riprendersi dopo una serie abbastanza lunga di buchi nell’acqua, sempre sia pace all’anima del povero creatore di Taron e della sua pentola, avevano spinto la Disney a spingere sull’acceleratore e tirare fuori pellicole diventate classici contemporanei. Basti pensare al primo film di questo Rinascimento, ovvero La sirenetta e come sia, nonostante la formula del musical, completamente opposto a Il gobbo di Notre Dame o all’assurdo de Le follie dell’imperatore. Attualmente, invece, possiamo ammirare una stagnazione concettuale ed artistica che porta a riproporre gli stessi stilemi sempre identici a se stessi, senza mai che nulla cambi in loro. 

Le idee sicuramente ci sarebbero, è innegabile che dentro a quegli studios ci siano grandi menti creative, ma non c’è margine di fallimento: la macchina funziona e corre, compito di coloro che la guidano è fare in modo che continui ad andare avanti sulla propria strada. L’innovazione è piacevole ed interessante, ma solo se permette un sicuro guadagno e non va a pestare i piedi di nessuno, poiché questo è diventata la riflessione che soggiace al prodotto medio disneyiano: non è un film, ma una zona dov’è garantito dell’intrattenimento a buon mercato. Disney è Disney poiché veicola una data percezione di sé aprioristicamente da ciò che poi mette sulla tavola della sala cinematografica (N.d.C. Ammesso vada in sala e non si debba ricorrere a Disney +, ovvero la fila al casello per vedere le serie del MCU e The Mandalorian più costosa di sempre). In parole molto povere: Disney non ha alcun interesse nel tirare fuori concept originali per i propri remake.

Questa tendenza si legge in ogni film riportato in sala: Aladdin, Mulan, Il re leone, La bella e la bestia sono tutti gomitoli di lana per un pubblico di gattini sovrappeso che vogliono giocare senza impegnarsi troppo. Disney è conscia del proprio ruolo e su questo marcia e fa marciare al passo dell’oca i suoi collaboratori: fintantoché si seguirà la rotta di un becero conservatorismo che sfrutta la nostalgia dei propri spettatore, non ci sarà Ride your wave di Yuasa, The boy and the beast di Hosoda, Kirikù e la strega Karabà di Ocelot o Perfect blue del maestro Satoshi Kon che tengano. Ricordiamo, giusto per fare un esempio, che un capolavoro come Si alza il vento di Miyazaki venne scalzato a quel mercato del pesce che è la cerimonia degli Oscar da Frozen, filmetto passato alla ribalta per due canzoncine orecchiabili che attualmente risvegliano il lato più da Jack Torrance di chi scrive. 


Marco Mengoni, Elisa Toffoli, Edoardo Leo, Stefano Fresi cantano L'amore è nell'aria stasera (di "Il Re Leone"). © 2019 Walt Disney Records


I remake si fanno manifesto di questa mentalità. Prendiamo i due esempi più lampanti: La bella e la bestia ed il tanto citato Il re leone. In entrambi abbiamo una narrativa ricopiata come un liceale disperato, pronto anche a trascrivere attraverso il riflesso della finestra. In entrambi abbiamo un comparto tecnico di tutto rispetto. In entrambi abbiamo dei film che, una volta finiti, hanno lo stesso gusto di un panino del McDonald: così mediocre da chiederti perché tu abbia optato per quello e non, invece, per il kebab lì a fianco, forse meno elegante nella forma, ma sicuramente più gustoso e chiaro nei suoi intenti. Tutto, in questi prodotti, grida mediocrità, persino alcune interpretazioni di attori d’altissimo livello (Cfr. James Earl Jones, Ian McKellen o Ewan McGregor, povere stelle) che vengono costretti, come il maestro Orlando Serpentieri di Boris, a recitare/doppiare a «cazzo di cane» per non far sfigurare alcuni colleghi palesemente lì solo per finire di pagare il mutuo e togliersi lo sfizio di poter comprare un pacchetto di pinoli. Il doppiaggio italiano prova a migliorare la situazione, in alcuni casi con dei virtuosismi incredibili (Massimo Popolizio come Scar, antagonista principale in Il re leone, è musica per le orecchie), ma che non riesce a sollevare il film dalla palude d’insensatezza e vago disgusto in cui si rotolano felicemente. Nel caso de Il re leone va anche citata la malsana voglia di chiamare dei talent per ruoli fondamentali, il che non sarebbe un problema (Cfr. Fabrizio Frizzi come Woody o Enrico Papi come Mushu) se almeno il convocato fosse capace di fare il suo lavoro e non si distinguesse come il gorgonzola dalla mozzarella, ovvero per il fetore.

In sintesi, abbiamo ribadito come il cuore pulsante di queste manovre non sia tanto quello di potersi relazionare in maniera sincera e creativa con lo spettatore, ma piuttosto di portare avanti quella linea che lo vede come un simpatico inetto pronto ad essere messo all’ingrasso con qualunque cosa gli venga messa sotto il naso, purché abbia quella forma già conosciuta. Così il pubblico viene sottovalutato e ridotto ad un bambino da guidare, poiché incapace di pensare autonomamente. Uno dietro l’altro i remake diventano pasti sempre più insipidi, ma che portano avanti quell’incessantismo che accennavamo sopra, ovvero una retorica dove non esiste tempo per pensare accuratamente un prodotto, ma solo una catena di produzione meccanica che sforna idee come se fossero pagnotte da grande magazzino. 

Luca Campilli. "Rinascimento Disney". Fr4med.it


Il re leone, con i suoi leoni monoespressivi, i suoi colori scialbi, la sua regia da compito in classe di matematica delle medie esemplifica tutto quanto detto sopra. Per lo spettatore disattento potrebbe essere una pellicola come un’altra, ma per qualcuno che ha deciso da piccino d’essere come il Totò di Nuovo cinema paradiso del buon Giuseppe Tornatore, questo è un coltello tra le coste. Perché chi ha una così alta considerazione dell’Arte, nella fattispecie della cinematografia, non può che infuriarsi quando vede certi scempi da coloro che l’hanno portato a vedere l’avvio di una pellicola come una transustanziazione e la sala cinematografica come suo altare.

Questa è stata una riflessione veloce, sicuramente insufficiente, intorno alla questione “remake” e più generalmente sull’impero di Topolino, su cui il sole non tramonta mai. Nonostante ciò, questo non vuole essere che uno sprone, affinché le persone inizino a dialogare intorno a questa politica conservatrice che soffoca lentamente, come se avvolta da un boa, l’idea fondamentale coniata da Tom Fitzgerald che la Disney presentava come suo mantra: «Se lo puoi sognare, lo puoi fare». La speranza, l’ultima a morire per antonomasia, è che un giorno il cielo si apra sopra la sede della Walt Disney Studios Motion Pictures a Burbank ed il fantasma del vecchio Walt ruggisca un immortale: «Ricorda chi sei!».



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