Due chiacchiere al pub su Tim Roth

 Di Federico Rossato


Scrivere con un piglio più squisitamente saggistico è molto divertente. Non tanto perché siano divertenti i saggi, sfido chiunque a trovare umoristico Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia di Karl Löwith, ma poiché scriverne uno significa prendere il bisturi in mano e divertirsi a fare a pezzi, senza particolari rischi, un qualcosa. Amare la saggistica significa amare la vivisezione di un qualche argomento. 

Di tanto in tanto, però, è anche cosa buona e giusta togliersi il camice sozzo di sangue, farsi una doccia e raccontarsi al tavolo di un pub con gli amici. Niente epopee fantasmagoriche, nessuno di noi è mai stato san Giorgio che uccise il drago, e tantomeno profonde retrospettive psicoanalitiche: semplici chiacchiere tra persone qualunque intorno a ciò che si ama ed il percorso teso ad esso. Questo preambolo per dire che ciò che state per leggere non ha alcun interesse ad essere una dissertazione accademica su Tim Roth, ma piuttosto il racconto di un vecchio amico che, dopo essere stato alla sua masterclass al Museo Nazionale del Cinema di Torino, ha deciso di chiacchierarne un po’, tra una birra e qualche stuzzichino.

Tim Roth sulla Mole Antonelliana. Foto di Michele D'Ottavio.

Sarà stata la lunga pausa da qualsivoglia evento sociale, ma ritrovarsi a seguire una masterclass dopo tanto tempo passato dinanzi ad un computer è stato qualcosa di emozionante. Non solo per essersi ritrovati dentro al Museo Nazionale del Cinema di Torino, luogo erogeno ed erotico per qualunque amante della settima arte, ma perché finalmente tornavano quelle due condizioni necessarie del darsi di queste esperienze a lungo sopite: la socialità e la carnalità.

La socialità perché, a dispetto di quanto possano sostenere i più egoisti individualisti di questo pianeta, è necessario riconoscere il ruolo fondante e fondamentale dell’esperire un qualcosa, sia esso uno spettacolo di teatro, un concerto, un dipinto, un film o vattelapesca, con qualcuno al nostro fianco. Non necessariamente dev’essere il nostro partner o un nostro amico, poiché potrebbe anche darsi sia un semplice sconosciuto che, per volontà del Fato o del Caso, s’è seduto al posto vicino al nostro anziché due più in là. La presenza di qualcuno fuori di noi lì, al posto a fianco, è fondante per rendere ciò che esperiamo più “vero”, poiché condiviso tra più individui e non solo dal singolo (N.d.C. Basti pensare ad una promessa. Esisterebbe, questa, senza un qualcuno verso la quale rivolgerla? La risposta è no, poiché sarebbe alla stregua di un pensiero fluttuante, non avendo alcuna registrazione a supporto che le dia sostanzialità). Poter tornare a vivere esperienze simili con persone al proprio fianco altrettanto emozionante, stanche, felici, trepidanti, euforiche non fa che rendere il tutto un balsamo per il cuore.

La carnalità si riallaccia fortemente alla socialità, ma se ne distacca per alcune caratteristiche distintive. Certo, per essere in carne ed ossa dinanzi ad una persona è condizione necessaria la socialità, poiché due persone sono già un gruppo, ma la carnalità la si può predicare tanto del contesto intorno a noi, fondante ma non oggetto dell’esperienza estetica che andremo ad esperire, quanto della res che andremo a prendere in esame. Guardare uno spettacolo teatrale dal vivo o dallo schermo del pc è qualcosa di radicalmente diverso, salvo condizioni mentali che consiglierei di far controllare da un neuropsichiatra, ed è la carnalità questa discriminante. Poter sentire, vicino a sé, un qualcuno rende ogni cosa più viva e vivida, oltre ad attivare una partecipazione che supera l’interesse per arrivare direttamente all’attenzione. Vedersi passare Tim Roth ad una decina di centimetri è qualcosa di spettacolare e destabilizzante, come vedremo anche in seguito, poiché rende qualcosa di normalmente demandato alla facoltà immaginativa dello spettatore concreto: lui è lì ed esiste oltre la mia parola che lo definisce tale.

Queste due specifiche potrebbero sembrare inutili, ma al fine di rendere il ritorno ad un evento del genere, credo sinceramente siano più che legittime. Soprattutto quando parliamo d’avere davanti agli occhi Tim Roth, uno del Brit Pack che ha messo la faccia in una serie di film diventati cult della storia della cinematografia occidentale. Oltre al famosissimo Le iene di Tarantino, infatti, andrebbero citati Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Stoppard, Tutti dicono “I love you” di Allen, La leggenda del pianista sull’oceano di Tornatore, Invincibile di Herzog o Un’altra giovinezza di Coppola, giusto per dare un assaggio della filmografia vertiginosa di questo attore. Sentirlo vicino a sé, anche solo per un breve istante, lo trascina via dallo schermo e lo riempie di fiato, di vita, di spirito, consentendo a chiunque di cogliere come, oltre l’idolo, ci sia una persona umana, troppo umana, riprendendo una formula amata dal mio caro Nietzsche.

Tim Roth visita il Museo del Cinema. Foto di Michele D'Ottavio.

Perché questa nota sull’umanità di Roth? Beh, essenzialmente perché egli si presenta così. Senza particolari artifici, pompose presentazioni, abiti ricercati o quieto snobbismo. Una persona che inizia il proprio intervento spiegando come, nella propria carriera, non si sia fatto problemi tanto a recitare in progetti in cui credeva, come i sopracitati Herzog e Coppola, quanto in pellicole di bassa lega che, cito testualmente, “servono a pagare l’affitto”. Non c’è mistificazione nelle parole di Roth: le sue scelte sono dettate dalla passione, da ciò che vorrebbero vedere i suoi figli e da quello che gli serve per vivere tranquillamente. Non viene, quindi, posto sullo stesso livello un film di Allen a L’incredibile Hulk di Leterrier, mostrando quindi una profonda onestà intellettuale che va oltre la cieca prospettiva del botteghino. Sentirlo parlare, infatti, rivela un profondo amore e rispetto per il proprio mestiere. Un sentimento, questo, che viene raccontato attraverso una serie meravigliosa di piccoli aneddoti, da Herzog che spaventa i suoi figli a Peter Greenaway e la sua ossessione per i bicchieri in Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, i quali restituiscono la vita di un attore che decise e decide tutt’ora d’essere tale, avendo proprio dichiarato davanti a tutti di non avere alcun interesse a tornare, dopo un fugace esperimento, dietro la camera. Parafrasando quanto diceva Gusteau in Ratatouille: “Chiunque può girare”. Questo non significa che chiunque possa essere un regista, ma che un regista possa celarsi in chiunque. Roth ha dichiarato d’essere interessato al mondo dietro la camera. Roth ha vissuto quanto desiderava conoscere. Ora Roth è libero di poter tornare al proprio regno d’appartenenza, soddisfatto d’aver soddisfatto una propria curiosità.

Quanto è stata positiva la presenza di Roth, quella della stampa presente in sala è stata irritante. Se il primo s’è posto in maniera franca davanti al proprio pubblico, rispondendo sempre senza porsi particolari problemi, i secondi l’hanno trattato tra il guanto di velluto ed una superficialità offensiva. Sentire chiedere a Roth come gestisse la fine di un ruolo, dando per scontato sia un attore di metodo, palesa una forte ignoranza dell’attore, fuorché per alcuni iconici ruoli. La ciliegina giunge infine con un giornalista che prova a pungolarlo chiedendogli se, secondo lui, la fantomatica Cancel Culture, il movimento #MeToo ed i moti degli ultimi anni stiano o meno limitando le sue possibilità artistiche. Roth, probabilmente già pronto a domande così vuote, risponde nella maniera più intelligente possibile, rimarcando come semplicemente l’industria si stia innovando, rendendo più accessibili determinati ambienti e temi già preesistenti. L’esempio portato in questione da Roth è quello di Selma - La strada per la libertà, ovvero una pellicola diretta da Ava Marie DuVernay, una donna nera, cosa non impossibile ma sicuramente più rara di quanto non sia oggi: il cinema s’apre e rinnova, così dobbiamo fare noi con esso. Inoltre, quasi con un pizzico di divertimento, ricorda come il cinema sia e sia sempre stato un veicolo politico, nello specifico va a citare una manciata di film di critica al thatcherismo in cui ha recitato per passione ed intima convinzione.

L’unico timore di Roth, ad oggi, è intorno alle piattaforme di streaming. Riprendendo quanto detto all’inizio, la paura dell’attore è che l’esperienza di una pellicola diventi qualcosa di limitato all’individuo e allo schermo del proprio tablet, anziché un momento condiviso tra più persone dentro una sala. Nello specifico, il COVID parrebbe aver dato una spallata di considerevole forza al cinema come esperienza sociale, derubricando il cinema ad un fenomeno di mero intrattenimento, sostitutivo della classica televisione. Questa, per Roth, è una prospettiva deprimente che spera svanisca in tempi più o meno rapidi, invertendo quindi il verso e ridando spirito all’atto sociale della visione. La battuta in chiusura è proprio sull’essere, noi presenti in sala, i primi a tornare in sala.


Questa è stata l’esperienza della masterclass con Tim Roth al Museo Nazionale del Cinema di Torino, tra battutine su Herzog e naturali timori verso il futuro. Un’esperienza, questa, sicuramente affascinante e degna del proprio prezzo irrisorio (N.d.C. Una birra ed un kebab, spesso, costano quanto una masterclass con Roth, il che è tutto dire). Non rimane che consigliare d’andare sia al Museo, dove tra l'altro è possibile rivedere la masterclass qua citata, che ai prossimi incontri organizzati, sia per aver modo di sentire parlare di cinema da gente che lo respira da quando si sveglia la mattina a quando va a dormire, sia per ricordare e ricordarsi di quanto sia importante la natura sociale di questa passione. Poiché se esiste un senso alla nostra inverata e supponente presunzione di provare emozioni, esso è nella condivisione di queste. Quello che rimane da consigliare, dunque, è d’andare e condividere, con gli amici quanto con degli estranei, questa e queste esperienze. Usando proprio le parole di Roth in Rosencrantz e Guildenstern sono morti:

Rosencrantz: Tu credi che la morte possa essere una nave?
Guildenstern: No, no, no... la morte no: la morte non è. Cerca di capirmi, la morte è la negazione totale, il non essere. Non si può non essere su una nave.
Rosencrantz: A me è capitato spesso di non essere su una nave. 
Guildenstern: No, è diverso, tu eri, ma non su una nave.

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