Le lettere sul dolore di Emmanuel Mounier: un'esperienza necessaria

Di Luca Martinelli

Lo confesso: la mia infanzia è stata immersa nel cattolicesimo di provincia. Come molti, sono cresciuto a pane, oratorio, catechismo e messe. A 15 anni dopo innumerevoli riflessioni adolescenziali mi sono totalmente allontanato dal mondo cattolico: tuttora non sento nessuna esigenza di confessarmi o di dovere condividere con altre persone la fede.

Ma, come in ogni cosa, c’è un ma. Il mistero della sofferenza mi ha sempre inseguito: come un insidioso fantasma, ad ogni prova della vita mi sono spesso chiesto il perché della sofferenza. Un perché comune a tutta l’umanità, giacché ogni uomo nella vita è stato attorniato dai dáimōn del dolore. È così che all’età di 22 anni, in un altro periodo complesso della mia vita, per caso in biblioteca girando tra gli scaffali un libro mi cattura dal titolo: Lettere sul dolore. La collana è quella di Rizzoli su “I libri dello spirito cristiano”. Come istintivamente, sento che questo sarà uno di quei libri che cambierà la mia esistenza. Ce ne sono stati innumerevoli: la letteratura è vita per il sottoscritto.

Emmanuel Mounier: un filosofo di cui conoscevo a grandissime linee il pensiero. Eppure in questa raccolta non ci viene rilevato il pensiero filosofico di Mounier: si scorge un tratto di pensiero, ma non è questo l’approccio del libro. Infatti vengono raccolte da Davide Rondoni (uno dei maggiori critici e poeti del nostro tempo) le lettere che Mounier spedisce a moglie ed amici sul suo personalissimo dolore. Mounier perse diversi amici in giovane età, vide la Francia tingersi di nero, venne imprigionato dai nazisti e vide la figlia cadere in un irreversibile coma e morire.

Eppure in queste lettere il filosofo francese ci vuole mostrare l’esistenza di una luce nel buio: è il buio più buio a rappresentare la luce. Non si cercano facili consolazioni, pietismi: si va a sondare il dolore più estremo, senza volerlo scacciare. È un immersione nella passione, nel senso cristologico del termine.

Vampiri, Munch

È questa la chiave delle lettere di Mounier: non la retorica o le orazioni, non le facili prediche. La Verità non viene cristallizzata nel dogma o nella dottrina: è dalla carne della sofferenza che il francese trova le risposte ai suoi patemi, alla sua tragedia.

L’atteggiamento di fronte alla sofferenza è quello dell’accettazione della Provvidenza: la morte di Francoise viene vista come segno della presenza di Dio, nell’accettazione della fine che si fa inizio di nuova vita, nuovo spirito. È la partenza dell’invocazione, della preghiera. Mounier sembra unire l’atteggiamento stoico alla fede più pura, guidata non dal fanatismo ma dal puro stato di abbandono. Abbandono mistico che è compresenza di ascesi nei cieli e discesa negli inferi terreni: come scrive in una delle prime lettere alla moglie accettare la volontà di Dio non significa umanizzare l’amore soprannaturale della sofferenza e della rinuncia, significa invece accettarla in qualsiasi modo essa si manifesti, anche se dovesse essere conforme ai miei desideri umani.

Sembra di sentire echeggiare la voce di un papa e di un santo, Gregorio Magno, il quale sosteneva che la voce del mondo parla attraverso le rovine. Se ci poniamo in una forma laica, come del resto sono costretto a fare io, giovane scettico e agnostico, l’ottica di Mounier e di Gregorio Magno è rivoluzionaria: il nichilismo esistenziale, il non senso della vita, viene sconfitto attraverso la voce straziata dal dolore. È nel pianto che si trova la sincerità: occorre essere deboli, fragili, lasciarsi trafiggere dal coltello affilato della vita. Solo così forse sarà possibile riconoscere quella che Tarkovskij definiva la freschezza dell’esistenza.


Si ringrazia Giuseppe Moledda per l’aiuto sulla filosofia di Gregorio Magno.

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