M. Il mostro di Düsseldorf: tra la maschera e la follia della psiche

Di Nicole Mazzucato

Alla domanda su chi sia uno dei mostri più iconici del cinema, nessuno risponderebbe M. Attorno a questa lettera speculare e simmetrica orbitano due grandi registi: Alfred Hitchcock che ha diretto Dial M for Murder (1954) conosciuto ai più col titolo Il delitto perfetto, in cui l’assassino Tony Wendice racchiude nel nome una somiglianza con la “V” di vendetta. Il secondo film, iconico e fondatore del genere noir, poi ripreso dallo stesso regista inglese, è M. Il mostro di Düsseldorf (M – Eine Stadt sucht einen Mörder) diretto da Fritz Lang nel 1931. 
La pellicola ha risentito di diversi problemi, soprattutto a livello di distribuzione: la versione definitiva di 117 minuti è stata restaurata solo recentemente (2000) grazie al ritrovamento di negativi originali. 

La scena iniziale di M. Il mostro di Düsseldorf  

Ritornando però al quesito iniziale, ovvero chi siano i mostri più iconici del cinema: molti risponderebbero Freddy Krueger, oppure Leatherface; i più interessati al cinema di David Fincher invece citerebbero il caso mondiale di Zodiac. Quello che comunemente si ignora è che tutte queste narrazioni filmiche-cronachistiche sono state influenzate dalla pellicola di Fritz Lang. 
Banalmente, la filastrocca che recita Elsie Beckmann, una delle vittime di Hans Beckert (ovvero il Mostro), è simile a quella in Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, 1984) di Wes Craven. I messaggi cifrati o le notizie che gli assassini forniscono alle autorità, come in Seven e in Zodiac, si ritrovano in M. Da notare, inoltre che le più celebri pellicole su serial killer sono tratte dalla cronaca nera. La vicenda è ambientata tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, in Germania, precisamente a Berlino, anche se nel titolo italiano è citata Düsseldorf. Lang si è ispirato, infatti, liberamente ai crimini commessi da Fritz Haarmann e Peter Kürten, in specifico un caso del 1925. 

Nel lungometraggio, Hans Beckert è un serial killer pedofilo, che affetto da raptus efferati rapisce diverse bambine e le uccide. La ricerca dell’assassino è sapientemente divisa su due strati narrativi. Il primo consta delle indagini della polizia che scandagliano la città, cercando l’assassino nei bassifondi della periferia. La seconda linea narrativa, invece presenta l’operazione compiuta da Schranker, noto criminale, i cui affari sono intralciati dalla capillare presenza delle autorità nei luoghi da lui controllati. Decide, quindi, da solo di catturare il Mostro. 
Lang non ferma il suo occhio cinematografico sulle ricerche, ma dipinge un quadro espressionista della Berlino degli anni Venti: le donne lavoratrici, i senzatetto, il cieco, la governante sorda, le prostitute e gli strati più poveri della società. In molte inquadrature si può riconoscere la stessa tinta satirica usata da Otto Dix, artista espressionista tedesco, nel ritrarre affreschi sociali. 

Il venditore di fiammiferi, Otto Dix, 1920

La stampa, come i media ai giorni nostri, fungono da miccia alla follia collettiva: tutti vogliono rintracciare l’omicida, aizzando le folle contro innocenti. Il regista sardonicamente ritrae un gruppo di uomini che si accusano a vicenda dei crimini, mentre leggono il messaggio che M fa recapitare ai giornalisti. Il mostro ucciderà ancora e viene inquadrato, mentre scrive il biglietto nei pressi della finestra di casa.

Una scena del film M. Il mostro di Düsseldorf

Lang adotta qui due strategie interessanti: la prima è non mostrare mai l’esecuzione dei delitti, come nel celebre romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde (citato non a caso in quanto ritornerà nel corso della pellicola). L’altra è l’analisi dettagliata della psicologia del serial killer: alcuni esperti vengono ingaggiati per indagare la psiche del killer, la sua malattia e i suoi impulsi ad uccidere. Si notano altre affinità con l’opera di R.L. Stevenson quando viene mostrato il volto di M, un certo Hans Beckert (Peter Lorre), segnalato alla polizia per la sua instabilità mentale. L’assassino viene ritratto mentre perlustra il suo volto allo specchio, deformandolo, come se indossasse una maschera o se fosse un altra persona. 

Le indagini continuano quindi su entrambi i fronti: l’ispettore Karl Lohmann (Otto Wernicke) scopre la residenza dell’assassino, condivisa con una donna sorda, la quale non sa fornire specifiche informazioni sull’uomo. L’agente trova, successivamente, numerose tracce sulla finestra. Egli individua i segni del passaggio di una matita e alcuni frammenti rossi corrispondenti con il biglietto minatorio inviato alla stampa. 
Dall’altro lato, Schranker e i suoi scagnozzi rintracciano M, grazie alla segnalazione di un vecchio cieco che incita un aiutante di nome Iris ad inseguire M. Iris disegna sulla propria mano la lettera M, e grazie ad una scusa riesce a toccare la spalla di Hans. L’assassino è ora riconoscibile e si trova intrappolato in un edificio accerchiato dai scagnozzi di Schranker. Qui sono presenti numerose scene di transizione: si instaura un continuo parallelismo tra questi due fronti narrativi. 

Interessante è cogliere le analogie utilizzate da Stanley Kubrick in Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) o l’enfasi sui dettagli ripresa nelle più moderne pellicole di Wes Anderson, in particolare in The Grand Budapest Hotel (2014). 

Alcune scene dell'opera di Lang confrontate con
 Il Dottor Stranamore (1964) e The Grand Budapest Hotel (2014)

Hans è ora in trappola: la banda di Schranker riesce a catturarlo e lo mettono a giudizio popolare. Il tribunale popolare è composto dai giudici che sono i capi dell’organizzazione criminale e la giuria composta dai collaboratori di Schranker. Ad M viene, poi, affidato un avvocato difensore. 
Ora l’assassino pronuncia la propria arringa difensiva che può essere interpretata sotto diversi aspetti. Il linguaggio utilizzato è duplice: prima enfatico e averbale, carico di simbologie (ricordo che questa pellicola è la prima opera, dall’avvento del sonoro, realizzata da Lang) alternato ad un’eloquente retorica. 

Prima di analizzare in dettaglio il discorso di Hans, è utile notare come l’assurdità del processo possa richiamare ante literram il giudizio popolare e sommario applicato poi in epoca nazista. Questo aspetto viene ripreso in un’aspra critica alla pena di morte e alla burocrazia presente anche in un’altra opera: Il processo di Franz Kafka (e il conseguente adattamento cinematografico omonimo di Orson Welles del 1962).

Confronto con Il processo (1962)

Nella prima parte del suo discorso M richiama a «la sensazione che qualcuno mi stia seguendo», in riferimento al fatto che nella vita quotidiana è ignorato da tutti, un emarginato che conduce la sua vita come un automa. È facile individuare la segretezza della sua seconda vita, un lato Altro del proprio Io, che cerca di nascondere agli occhi di tutti e alle voci di tutti. 
Emblematico, è come entrambi i sensi (udito e vista) lo inchiodino ai crimini commessi. Da una parte abbiamo il cieco che lo riconosce per il motivetto da lui fischiato (che funge da trigger nel momento del passaggio dal proprio Io all’Altro “malvagio” identificato dalla melodia di In the Hall of the Mountain King di Grieg), dall'altro quello visivo della sua padrona di casa. Hans sottolinea che vuole scappare e ha «l’impressione di correre dietro a me stesso». È un uomo che cerca di nascondere il suo lato maligno, simile a Doctor Jekyll che nauseato dalla cattiveria non riesce a liberarsi di Mr Hyde. L’espressionismo di Lang si nota nella battuta successiva:

«Per strade senza fine! Voglio andare via! Voglio andare via! Ma con me corrono i fantasmi... di madri, di bambini... Non mi lasciano un momento! Sono sempre là! Sempre! Sempre! Sempre! Soltanto quando uccido. Solo allora... E poi non mi ricordo più nulla. »

Hans, dunque, è perseguitato dal fantasma del proprio Io e delle vittime. Crede di non essere colpevole, ed di essere alienato nel momento del compimento dei crimini. Afferma poi che nessuno lo può vedere “dentro”. Nessuno sente le voci che pervadono il suo cervello, mentre uccide. 

«Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro e cos'è che sento urlare nel mio cervello e come uccido?! Non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi, sento urlare una voce... e io non la posso sentire!» 

Una dinamica analoga è presente in Halloween (1978) di John Carpenter, in cui Michael Myers viene rinchiuso in manicomio in tenera età. Lo psichiatra che lo ha seguito, afferma più volte nel corso della pellicola che non è possibile indagare nella mente di Myers: non comprende la dinamica  della sua psiche nel momento in cui sente il bisogno di uccidere.
Un approfondimento maggiore della psicologia del serial killer e dell’imperativo “devo uccidere”, è dipinto da Lars von Trier nel film La casa di Jack (The House that Jack Built, 2018). Il protagonista Jack (Matt Dillon) descrive il suo bisogno continuo di uccidere persone, usando la metafora delle zone d’ombra e luce dei lampioni su una strada notturna. Nel primo caso, Jack sente l’impulso di uccidere, nel secondo invece regna la calma interiore. Lo stesso Jack, poi, chiama gli omicidi “incidenti” in quanto non si sente responsabile delle vite che strappa violentemente alla radice. 

 
Scena dal film La casa di Jack (2018)

La riflessione di Lang, però si sposta sulla responsabilità collettiva, più che individuale, ovvero il corso della giustizia. Il film si chiude infatti sul tribunale, in cui M viene giudicato dopo essere stato arrestato dalla polizia. Tre donne vestite di nero implorano la protezione dei bambini dal carnefice. L’aura collettiva è assimilabile al già citato Il processo di Kafka, il cui il protagonista K viene giudicato senza aver apparentemente commesso crimine, in una retorica di giustizialismo marcio. 

M è quindi il prototipo di numerose pellicole successive, che legano la cronaca nera, la psicologia del killer e lo studio della “banalità del male”. Il male invade qualsiasi classe sociale, qualsiasi istituzione, anche quelle in superficie chiare, pure e innocenti. I messaggi di cui l’opera di Lang è portatrice sono diversi e ricalcano la facoltà di giudizio di ogni singolo individuo che non è legittimato a decidere della vita altrui. Ne consegue che non è nemmeno portato ad essere vittima di una retorica di giustizia personale fino alla psicosi collettiva. In questo contesto, il singolo si perde nella folla istruita ad eseguire ordini senza possibilità di parola.

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