Di Nicole Mazzucato
La scena iniziale di M. Il mostro di Düsseldorf |
Banalmente, la filastrocca che recita Elsie Beckmann, una delle vittime di Hans Beckert (ovvero il Mostro), è simile a quella in Nightmare – Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, 1984) di Wes Craven. I messaggi cifrati o le notizie che gli assassini forniscono alle autorità, come in Seven e in Zodiac, si ritrovano in M. Da notare, inoltre che le più celebri pellicole su serial killer sono tratte dalla cronaca nera. La vicenda è ambientata tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, in Germania, precisamente a Berlino, anche se nel titolo italiano è citata Düsseldorf. Lang si è ispirato, infatti, liberamente ai crimini commessi da Fritz Haarmann e Peter Kürten, in specifico un caso del 1925.
Lang non ferma il suo occhio cinematografico sulle ricerche, ma dipinge un quadro espressionista della Berlino degli anni Venti: le donne lavoratrici, i senzatetto, il cieco, la governante sorda, le prostitute e gli strati più poveri della società. In molte inquadrature si può riconoscere la stessa tinta satirica usata da Otto Dix, artista espressionista tedesco, nel ritrarre affreschi sociali.
Il venditore di fiammiferi, Otto Dix, 1920 |
Una scena del film M. Il mostro di Düsseldorf |
Lang adotta qui due strategie interessanti: la prima è non mostrare mai l’esecuzione dei delitti, come nel celebre romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde (citato non a caso in quanto ritornerà nel corso della pellicola). L’altra è l’analisi dettagliata della psicologia del serial killer: alcuni esperti vengono ingaggiati per indagare la psiche del killer, la sua malattia e i suoi impulsi ad uccidere. Si notano altre affinità con l’opera di R.L. Stevenson quando viene mostrato il volto di M, un certo Hans Beckert (Peter Lorre), segnalato alla polizia per la sua instabilità mentale. L’assassino viene ritratto mentre perlustra il suo volto allo specchio, deformandolo, come se indossasse una maschera o se fosse un altra persona.
Dall’altro lato, Schranker e i suoi scagnozzi rintracciano M, grazie alla segnalazione di un vecchio cieco che incita un aiutante di nome Iris ad inseguire M. Iris disegna sulla propria mano la lettera M, e grazie ad una scusa riesce a toccare la spalla di Hans. L’assassino è ora riconoscibile e si trova intrappolato in un edificio accerchiato dai scagnozzi di Schranker. Qui sono presenti numerose scene di transizione: si instaura un continuo parallelismo tra questi due fronti narrativi.
Interessante è cogliere le analogie utilizzate da Stanley Kubrick in Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) o l’enfasi sui dettagli ripresa nelle più moderne pellicole di Wes Anderson, in particolare in The Grand Budapest Hotel (2014).
Alcune scene dell'opera di Lang confrontate con Il Dottor Stranamore (1964) e The Grand Budapest Hotel (2014) |
Confronto con Il processo (1962) |
Emblematico, è come entrambi i sensi (udito e vista) lo inchiodino ai crimini commessi. Da una parte abbiamo il cieco che lo riconosce per il motivetto da lui fischiato (che funge da trigger nel momento del passaggio dal proprio Io all’Altro “malvagio” identificato dalla melodia di In the Hall of the Mountain King di Grieg), dall'altro quello visivo della sua padrona di casa. Hans sottolinea che vuole scappare e ha «l’impressione di correre dietro a me stesso». È un uomo che cerca di nascondere il suo lato maligno, simile a Doctor Jekyll che nauseato dalla cattiveria non riesce a liberarsi di Mr Hyde. L’espressionismo di Lang si nota nella battuta successiva:
«Per strade senza fine! Voglio andare via! Voglio andare via! Ma con me corrono i fantasmi... di madri, di bambini... Non mi lasciano un momento! Sono sempre là! Sempre! Sempre! Sempre! Soltanto quando uccido. Solo allora... E poi non mi ricordo più nulla. »
Hans, dunque, è perseguitato dal fantasma del proprio Io e delle vittime. Crede di non essere colpevole, ed di essere alienato nel momento del compimento dei crimini. Afferma poi che nessuno lo può vedere “dentro”. Nessuno sente le voci che pervadono il suo cervello, mentre uccide.
«Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro e cos'è che sento urlare nel mio cervello e come uccido?! Non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi, sento urlare una voce... e io non la posso sentire!»
Scena dal film La casa di Jack (2018) |
La riflessione di Lang, però si sposta sulla responsabilità collettiva, più che individuale, ovvero il corso della giustizia. Il film si chiude infatti sul tribunale, in cui M viene giudicato dopo essere stato arrestato dalla polizia. Tre donne vestite di nero implorano la protezione dei bambini dal carnefice. L’aura collettiva è assimilabile al già citato Il processo di Kafka, il cui il protagonista K viene giudicato senza aver apparentemente commesso crimine, in una retorica di giustizialismo marcio.
M è quindi il prototipo di numerose pellicole successive, che legano la cronaca nera, la psicologia del killer e lo studio della “banalità del male”. Il male invade qualsiasi classe sociale, qualsiasi istituzione, anche quelle in superficie chiare, pure e innocenti. I messaggi di cui l’opera di Lang è portatrice sono diversi e ricalcano la facoltà di giudizio di ogni singolo individuo che non è legittimato a decidere della vita altrui. Ne consegue che non è nemmeno portato ad essere vittima di una retorica di giustizia personale fino alla psicosi collettiva. In questo contesto, il singolo si perde nella folla istruita ad eseguire ordini senza possibilità di parola.
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