"Requiem" di Patrizia Valduga: il senso del condolersi

Di Luca Martinelli

Dolore, Van Gogh, 1882

28 ottave in endecasillabi per i 28 giorni di agonia del padre morente: questo è, riassumendo in maniera sintetica, il Requiem di Patrizia Valduga, uscito nel 1994 in edizione limitata e riproposto successivamente dalla “Bianca” Einaudi nel 2002. Approcciarsi a Requiem significa approssimarsi alle varie sensibilità che la poetessa veneta esprime in questo libro.

Requiem segue uno schema rigido: l’ottava in endecasillabi (uno dei metri forse più usati nella storia della poesia italiana, basti pensare alle ottave Ariostesche o del Tasso) sembra all’apparenza una prigione, ma permette alla voce di sciogliersi nella rima e nell’assonanza ed in generale in una musicalità che si fa lamento. Non è un caso che talvolta i versi della Valduga vadano ad assomigliare ad una vera e propria lamentazione, quasi una commemorazione.

Nonostante ciò, la Valduga evita la solennità e gioca sulla ripetizione dei termini vita e morte. Confini che nel verso si fa labile eppur distante: l’occhio e la penna della Valduga giocano sull’avvicinarsi della morte, inevitabile destino dell’uomo ma allo stesso tempo mostro orrorifico da cui non c’è ritorno. Non esiste la possibilità di un oltretomba, di una consolazione che possa redimere la poetessa. Esiste solo la certezza inoppugnabile e la conseguente disperazione.

Già, disperazione: Requiem è un libro disperato. Disseminati in diversi versi i sensi di colpa, il legame figlia-padre che si vede come una conclusione inconclusa, un film finito ma di cui manca il finale. La Valduga esprime la propria mancanza, il proprio non esserci, il rimorso senza vie di scampo. Eppure non è una poesia banalmente fatta di autocommiserazione: è una poesia che mira a condolersi.

È l’unica soluzione all’enigma: perché pubblicare una poesia tanto intima e tanta pregna di solitudine, di parola che ritorna a se stessa? L’unica risposta che ci si può dare è il bisogno della poesia di essere letta ed ascoltata. Una poesia scritta non è mai finita: è una domanda cui il lettore è obbligato a rispondere o alla non risposta, ma mai al mutismo imposto da una società di condivisione finta, dove il dolore è sempre più solitario e allo stesso tempo spettacolarizzato, pornografizzato.

Non è un caso che a scrivere Requiem sia la Valduga, la poetessa che ha portato l’eros femminile al centro del discorso poetico italiano: la voce della raccolta è priva di pudori, coraggiosa, eppure ancora
ormeggiata al porto della mancanza, della frustrazione di un desiderio affettivo. Così come in altre raccolte la poesia della Valduga affronta il desiderio sessuale con la brama, la fame, in questo esile libro troviamo lo stesso io che affronta la rinuncia colpevole, il distacco eterno. Eppure la voce rimane la stessa.

Io sono qui e ascolto il tuo ansimare
che mi ha scavato un solco sopra il cuore
E guardo, io sopporto di guardare
la tua vita, la tua vita che muore…
e ti porgo la garza da succhiare…
oh padre mio, oh padre del mio cuore,
dell’essere mio, dell’essere in me
oh quanta parte muore insieme a te…

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