Ridere a colpi di martello: una riflessione tra verità e blasfemia

Di Federico Rossato

Umberto Boccioni, La risata, 1911, Museum of Modern Arts di New York 

Essere irriverenti umoristi, in Italia, è un diktat. Persino dinanzi alla più tremenda e terrificante delle situazioni, è quasi doveroso che qualcuno, consciamente o meno, si faccia avanti con una battuta per smorzarne la tragicità. Così si crea e reitera quel clima conosciuto a tutti noi, abitanti della terra della pizza, della Mafia e di Berlusconi, ovvero quello spettacolo grottesco che vede su ogni evento il ghigno deforme di una risata. 

Veloci esempi storici di questo saltellare nevrotico, giusto per non lasciare nulla al caso? La ormai famosissima poesia del Pacciani dinanzi alla corte d’assise o il cuore immacolato di Maria sventolato ai quattro venti come uno spauracchio. Questi sono solo due esempi di questa risata nevroticamente macabra che infesta gli angoli più reconditi della mente. Le domande, però, che dobbiamo chiederci trascendono da questo darsi della risata: cos’è il riso? Possiamo ridere di tutto? È legittimo ridere di tutto?

Andando con ordine, partiamo dalla prima questione, ovvero quella che indaga l’elemento fondamentale di qualsiasi altra riflessione successiva: qual è lo statuto ontologico della risata? In parole meno altolocate, andiamo a cercare cosa sia la risata nei suoi lineamenti essenziali, ovvero che cosa noi s’intenda quando parliamo di risata. 

Cosa buona e giusta sarebbe citare Aristotele ed Henri Bergson, i quali vanno ad indicare come nucleo fondante della risata la sua funzione etico-politica, ma, per pietà del gentile pubblico qui condannato a leggere queste righe, ci si rifarà solo al secondo prima di balzare verso un’interpretazione metodologica dello scherno. Bergson, infatti, scrive un libretto agile, giusto meritevole del Nobel per la letteratura, in cui fornisce dei lineamenti ontologici intorno alla risata partendo da tre considerazioni generali.

Prima considerazione bergsoniana: secondo l’autore, non c’è nulla di comico al mondo che non sia inerente ciò che è propriamente umano. Si potrebbe ribattere dicendo “Ma signor Bergson, lei sta dicendo una panzana paragonabile alla lettura di Popper de La repubblica di Platone! Io rido dei TikTok sui cagnolini a cui viene rubato del cibo da dei gatti: le sembra forse inerente l’umano?” seguendo una linea di comune buon senso. Peccato che l’uomo di filosofia non sia amante del buon senso della brava gente, conseguentemente Bergson andrebbe rispondendo che anche quando l’oggetto del comico non è una persona, ciò che suscita il riso è un aspetto di quell’oggetto che richiama alla mente atteggiamenti e situazioni squisitamente umane.

Scivolare su una buccia di banana

Seconda considerazione bergsoniana: l’empatia, ovvero l’identificazione con la persona/oggetto di scherno, è morta, resta morta e noi l’abbiamo uccisa, poiché la situazione comica richiede «qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore». Se entrassimo in relazione con l’uomo a cui cade un albero sulla testa, come ormai è prassi da circa vent’anni con Paperissima Sprint di Antonio Ricci, non rideremmo, ma piuttosto ci strapperemmo le vesti per il dolore e la tragicità della situazione. Idem per situazioni meno drammatiche, come il famoso «Ma va a cagare!» di Giovanni Storti alla poesia di Giacomino Poretti nello sketch “La gita in montagna” nel loro spettacolo I corti o il classico scivolare su una buccia di banana. Al contrario della tragedia, come intesa da Aristotele, non può esserci empatia con l’oggetto di scherno nella situazione comica.

Terza considerazione bergsoniana: la risata cela sempre una tacita complicità, o quantomeno d’intesa, con altre persone, siano esse reali o immaginarie, nella stessa situazione di comicità. Questo passaggio è facilmente constatabile nell’esperienza di tutti i giorni. Per rafforzare il concetto, viene quasi la tentazione di citare la frase chiave di Oldboy di Park Chan-wook: «Sorridi, e il mondo sorriderà con te. Piangi, e piangerai da solo».

Da queste tre considerazioni, risulta abbastanza chiaramente la funziona che Bergson attribuisce alla comicità: la risata è la risposta a determinate esigenze sociali. In particolare, il comico è maledetto dall’essere un “castigo sociale” con cui la comunità-specie individua, respinge e corregge una serie di comportamenti percepiti come contrari all’élan vital bergsoniano, leggasi anche come “slancio vitale”, ovvero a quella forza spirituale che entra nella materia per dominarla e superarla. Il comico, dunque, è il prodotto di ciò che è stato collettivamente ritenuto necessario stigmatizzare dalle istituzioni preposte ad amministrare e garantire la salvaguardia della comunità-specie, ovvero è la stessa comunità-specie a porsi da imputata, giudice, giuria e boia allo stesso tempo.

Chi scrive questo articoletto, però, vuole proporre una prospettiva diversa sulla risata.

Questo perché la risata non è originariamente un mezzo etico-politico, ma un metodo attraverso cui approcciarsi alla realtà. In particolare, la risata corrisponderebbe al decostruzionismo, ovvero ad accogliere l’invito di Martin Heidegger alla destruktion e operare uno studio serrato con l’intento di riuscire a gridare «Il re è nudo!», ovvero esporre i presupposti impliciti, i pregiudizi, le contraddizioni della cultura e del linguaggio che reiteriamo ogni giorno senza nemmeno rendercene conto.

Jacques Derrida

In particolare, colui a cui ci si riferisce quando parliamo di decostruzionismo è Jacques Derrida. Diversamente da come intesa originariamente da Heidegger (ovvero come desedimentazione dei concetti della metafisica ereditati dalla tradizione al fine di conseguire la decostruzione della storia dell’ontologia), la decostruzione di Derrida ha a che fare con il “logocentrismo”, ossia il prius dell’oralità nella tradizione metafisica. La filosofia diventa critica della presenza e del differimento, esame che si sviluppa mediante la scomposizione di teorie e concetti, attraverso una costante riflessione sulla scrittura, ovvero la tecnica per eccellenza che rende possibile la trasmissione del sapere, poiché trasponendolo in un vasto insieme di tracce, al contempo, lo differisce tramutandolo in altro.

Ciò che si presenta, ovvero i fenomeni di cui facciamo esperienza quotidianamente, ha dietro di sé qualcosa che non si palesa, ma che lo rende possibile. Nella filosofia di Derrida, la decostruzione esprime la diffidenza verso le evidenze e le parvenze di immediatezza, ovvero è una costante critica della superficialità e delle idee a buon mercato, cosa mai abbastanza lodata e rimarcata in un periodo dove guru e luminari in bolletta spuntano come funghi velenosi. Superare le apparenze per riuscire a individuare le strutture più profonde ed autentiche è il tratto cardine della decostruzione, mostrando, da una parte, il profondo legame con l’atteggiamento smascherante ereditato dalla filosofia di Nietzsche, e dall’altra si pone come Aragorn alle porte di Rohan al rinnovamento della forza critica per il metodo filosofico.

In Derrida, la decostruzione non è tanto la scomposizione meccanica di teorie ed argomenti ereditati dalla tradizione, quanto piuttosto l’individuazione delle strutture e delle relazioni che li fondano rendendoli possibili. Questo vuol dire andare alla ricerca del rimosso, del marginale, di ciò che è latente, riconoscendo che proprio tali elementi sono condizioni di possibilità per gli stessi meccanismi di rimozione, di marginalità e di latenza. L’aspetto che risalta, dunque, è che quel che si considera antitetico si rivela invece come complementare.

In questo senso, ciò che è stato chiamato critica (per i colleghi filologi, dal greco kritiké téchnē, ossia arte del giudicare) acquista nuova importanza per i modi di fare filosofia. Oltre che un attento esame che mira alla formulazione di un giudizio concernente il proprio oggetto di indagine, in virtù dell’atto decostruttivo, la critica trae origine dalla individuazione delle strutture profonde e dei meccanismi trascendentali, ossia delle condizioni di possibilità.

La forza della critica è, dunque, legata tanto al giudizio quanto al riconoscimento del trascendentale, ovvero di ciò che rende possibile che quel che appare antitetico sia, in ultima analisi, complementare. L’atto decostruttivo, come risaltava già nelle opere di Friedrich Nietzsche, con Jacques Derrida diventa ancor più rilevante, grazie a quel profilo di potenziale critico che lo caratterizza in rapporto tanto al giudizio quanto alla individuazione.

Arriviamo alla seconda domanda: è possibile ridere di tutto? Essendo la risata un metodo, ovvero quello del decostruzionismo, la risposta è senza dubbio positiva. Non perché si debba, poiché quella sarà una questione che affronteremo successivamente, ma perché, in termini logici, non c’è impedimento all’applicazione del metodo indicato da Derrida. Egli parla di una strategia di lettura, nel particolare dei testi classici, ma più in generale della realtà, che si pone a fianco dell’oggetto esaminato attendendo che sia esso stesso a far sentire i propri scricchiolii. Questo perché la realtà è costitutivamente in decostruzione, conseguentemente il filosofo non deve che allenare il proprio orecchio a percepire le dissonanze e gli stridii che minano qualunque formulazione, ovvero qualunque sogno totalizzante ed esaustivo nato dalla chiesa del credo sistematico. 

Ricky Gervais sulla comicità

Si può, dunque, ridere di tutto, poiché è lo stesso tutto a ridere, essenzialmente, di se stesso. Bisogna abbandonare, quindi, l’occhio teoretico che contempla pigramente i concetti distribuiti in un sistema ordinato, quasi come se la realtà fosse un arabesco particolarmente raffinato. Queste, però, sono metafore e Derrida ammonisce il proprio lettore su di esse, ricordando che la radice del linguaggio metafisico risiede proprio nella metafora. La filosofia deve superare il sistema, ma non per scelta, bensì per necessità.

In ultima istanza, la terza domanda: è legittimo ridere di tutto? Per iniziare una risposta a questa domanda, credo sia doveroso citare un passaggio de Il nome della rosa di Umberto Eco:

«Tu sei il diavolo» disse allora Guglielmo.

Jorge parve non capire. Se fosse stato veggente direi che avrebbe fissato il suo interlocutore con sguardo attonito. «Io?» disse.

«Sì, ti hanno mentito. Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l' arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto.»

Quando qualcuno va ponendo dei limiti alla risata, ovvero all’esame critico derivativo della decostruzione del reale, va parlando più di sé e del valore che attribuisce ad un qualcosa che proteggendo quella res. Le divinità, i libri, le idee, i valori, le cose più in generale si difendono da sole, parlando nei loro lineamenti essenziali, e non hanno bisogno delle nostre perorazioni ciceroniane. Andare a sfoderare la spada è inutile, poiché, come affrontato precedentemente, è la stessa realtà a richiamare l’orecchio del comico-filosofo attraverso le proprie sinfonie di scricchiolii e crepe: possiamo tenere al petto ciò che più preferiamo, ma non sarà mai possibile evitare che diventi polvere di ricordi.

Si rende doveroso, nella pratica, andare a fare filosofia con il martello, riprendendo Nietzsche, e smantellare tutti quei templi vuoti dove vengono conservati i nostri idoli. A colpa di mazza vanno spezzati ridendo, affinché non si diventi mai schiavi della verità. Citando ancora Umberto Eco:

«Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimo con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. Jorge ha compiuto un'opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità».

Questo articoletto non vuole essere un’apologia del nichilismo passivo, ma piuttosto un discorso a favore di un movimento d’emancipazione dai propri feticci. Nessuno può andare sottraendo il vostro particolare affetto per questa o quell’altra cosa, ma esso non determina necessariamente alcun tipo di validità o valore. La risata, dunque, è sempre legittima: l’unica variabile è l’accuratezza con cui viene mossa la battuta.

Il classico esempio di campo restio alla risata è, caso strano, il campo religioso. Bisogna essere onesti, però: la rigidità della religione è spesso dovuta alla sua vulgata e ai suoi ministri, più che a coloro che effettivamente la costituiscono e la studiano. Chi conosce qualcosa è molto più incline a riderci sopra di chi, invece, si limita a credere ciecamente nei dettami riferitegli da qualcuno, poiché il primo parla con la forma più autentica di ciò che studia, mentre il secondo non può che contemplare l’insieme dei valori ideali che ha un terzo. Ciò che è terrificante, però, è il potere che ha ancora l’amore lubrico per la verità.

Esempi di questa ossessione per la purezza? Ne prenderemo due, uno leggermente più recente dell’altro.

Il primo caso che prenderemo in esame è quello della censura, da parte dell’amministrazione del comune di Massa Martana in provincia di Perugia, del Mistero Buffo di Dario Fo che avrebbe dovuto portare in scena Matthias Martelli. A contratto firmato e piede sul palco, il comune ha ritenuto saggio ostacolare la rappresentazione, in particolare per via della giullarata de “Il primo miracolo di Gesù bambino”. L’amministrazione «si è opposta alla realizzazione dello spettacolo in quanto non lo ritengono adeguato (per i temi attinenti alla religione cattolica) alla loro popolazione». Questo è emerso il 25 agosto 2020, a dimostrazione di come la risata e lo scherno siano ancora qualcosa d’inviso a molti, ironicamente riaffermando quanto siano importanti oggi i giullari che osano saltare sul tavolo per mettere alla berlina tutte le ipocrisie dietro le quali ci si arrocca.

Matthias Martelli parla della censura di Mistero buffo

Così come Matthias Martelli nel video in cui denunciava l’accaduto, non rimane che citare la motivazione con cui l’Accademia di Svezia ha motivato il premio Nobel a Dario Fo: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere per restituire dignità agli oppressi».

Il secondo caso, invece, è più recente. Si parla della mostra Ceci n’est pas un blasphème presente al Palazzo delle Arti di Napoli fino al 30 settembre 2021. La mostra si pone l’obiettivo d’essere un piede di porco nella discussione intorno al retaggio cristiano cattolico sia nel diritto, in particolare polemizzando contro le leggi che puniscono la blasfemia, che nell’arte, relegando ogni rappresentazione artistica contraria ai dettami della Fede come degenerazione dei costumi e dei valori tradizionali.

Sorprendente come, a ben vedere, non sia cambiato nulla dai tempi di Catone il Censore: ancora si discute, in maniera ipocritamente futile, di corruzione dei veteres mores, presupponendo una qualche loro forma d’intrinseca sostanzialità e stabilità.

Curioso, per questione meramente retorica, è anche il fatto che la condanna di questa mostra sia stata mossa dagli ambienti più tradizionalisti e nostalgici dello spettro politico, ad esempio le bestie che berciano in coro con un essere abbietto che suona ai campanelli e quei ratti che sono strisciati abbastanza fuori dalla loro fogna per intitolare una strada a Giorgio Almirante. 

Questi figli degli artifici retorici di gente come Indro Montanelli, Roberto Gervaso e Mario Cervi sono la dimostrazione di come, anziché marciare al passo dell’oca salutando insulsi leader dall’anima così putrescente da far rabbrividire Mefistofele in persona, andrebbero letti quei libri considerati “eretici”. Andrebbero letti Dialoghi sul papa eretico di Gugliemo di Ockham, Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno, Trattato teologico-politico di Baruch Spinoza, La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel di Karl Marx, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, Il nano e il manichino: il cuore perverso del cristianesimo di Slavoj Žižek e tutte quelle opere bandite, allontanate, disprezzate ed ostacolate ciecamente nel corso dei secoli.

Questo non tanto per gli specialisti, da sempre familiari a questi testi, ma per il grande pubblico, abbandonato alle proprie idee-feticcio incancrenite dentro sistemi asfissianti che non lasciano spazio all’utilizzo dell’intelletto, ovvero non lasciano spazio alla maturazione dell’uomo.

Tutto questo discorso, alla fine della fiera, a che pro? Come scritto precedentemente, non c’è alcun interesse nel privare di significato o valore alcunché. Sarebbe intellettualmente raccapricciante andare a dire a chicchessia che l’unico modo di vivere in maniera autentica sia abbandonando qualunque cosa in cui creda. Questo significherebbe privarci di ciò che amiamo, dalle cose più banali come una pizza quattro stagioni a ciò che è veramente importante, ovvero quelle persone che ogni giorno ci strappano, anche solo per un momento, all’Angst con un calice di vino che ha il gusto delle loro labbra. 

Quello che viene ricordato è di non diventare mai servi dei fantasmi delle proprie verità, ma di utilizzare la propria ragione col sorriso di chi non teme il mondo, ma lo accoglie come l’ultima grande avventura che possa pararsi dinanzi a lui. Citando, per l’ultima volta, Il nome della rosa:

«Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell'universo.»

«Ma immaginando degli ordini errati avete pur trovato qualcosa...»

«Hai detto una cosa molto bella, Adso, ti ringrazio. L'ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso».

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