5 film muti per principianti: la redazione consiglia

Di Laura Astarita, Luca Martinelli, Fhe Pacifico, Silvia Strambi

Siete appassionati di cinema e avete provato ad avventurarvi nel mondo dei film muti, solo per restare amaramente delusi? Gli occhi vi si sono chiusi guardando Il gabinetto del dottor Caligari, avete trasalito leggendo la durata di Napoléon, e non vi ha neanche sfiorato il pensiero, memori del giudizio fantozziano, di guardare La corazzata Potëmkin?

Cari appassionati, io vi capisco bene. Il mondo dei film muti ha in sé tantissime gemme. Tuttavia, viste con gli occhi di oggi, molte pellicole possono risultare anacronistiche e per questo non piacere: la recitazione sopra le righe, l'uso di inquadrature spesso prolungate, la durata esagerata di alcuni kolossal... Il nostro sguardo deve allenarsi e adattarsi a quello che era, oggettivamente, un modo completamente diverso di fare film, prima di poterne apprezzare le caratteristiche che adesso risultano datate.
Per questo vi propongo in questo articolo 5 film che potete recuperare per "allenarvi", prima di passare ad opere di più grande portata (sia a livello di durata che di impegno richiesto nella visione). Se dopo aver visto questi vi sarà già passata la voglia di proseguire con Nosferatu o Metropolis, potrete comunque dire di aver visto almeno un film muto!

RAPSODIA SATANICA (1917), regia di Nino Oxilia

Di Silvia Strambi

Lyda Borelli in Rapsodia Satanica (1917)

Come rappresentante del cinema italiano, (che, piccola curiosità, negli anni pre-Prima Guerra Mondiale faceva furore più di quello americano) propongo un film dalla premessa faustiana e dalla durata molto ridotta. Infarti la versione restaurata dura appena 45 minuti. Una dama d’alta società, Alba d’Oltrevita, ormai anziana, decide di farsi restituire la giovinezza stringendo un patto col diavolo. La donna si lascia alle spalle una scia di amanti e vite distrutte.

La caratteristica più sorprendente di questo film è il fatto che sia… a colori! Contrariamente al pensiero comune, le pellicole dei primi anni del cinema non erano sempre in bianco in nero. Spesso venivano colorate attraverso diverse tecniche. In questo film lo sfarzo degli ambienti della nobiltà italiana si accompagna al rosso vivido della casacca di Mefisto, alle tonalità pastello dei vestiti di Alba, tutti colorati a mano, fotogramma per fotogramma. Si dà così vita a un doppio spettacolo per gli occhi.

L’interpretazione di Lyda Borelli, diva del cinema muto italiano, è decisamente molto meno macchiettistica rispetto ad altre star del muto del nostro paese (penso a Leda Gys e al suo continuo rivoltare gli occhi all’indietro ne I figli di nessuno). La Borelli dà vita ad un personaggio contenuto e allo stesso tempo fonte di continue tragedie, con la sua bellezza e la sua spregiudicatezza, come una Dorian Gray femminile. L’impronta decadente (e soprattutto dannunziana) è evidente.
Come femme fatale la storia di Alba non può che chiudersi come è iniziata, ovvero con un nuovo incontro (fatale) con Mefisto. Non prima di averci regalato, però, una lunga scena suggestiva in cui ripercorre la sua villa, diventando il fantasma di sé stessa (foto sopra).


IL MONELLO (The kid, 1921), regia di Charlie Chaplin

Di Silvia Strambi

Jackie Coogan e Charlie Chaplin in Il monello (1921)

Parliamoci chiaro, Charlie Chaplin è stato una delle più grandi personalità del cinema americano. La sua filmografia intera, sia di regista sia di attore, meriterebbe una visione.
Il monello è probabilmente il film più semplice (ma non scadente) della sua filmografia, e allo stesso tempo quello che racchiude tutti gli elementi della sua arte. 

La storia vede protagonista il vagabondo Charlot, la "maschera" chapliniana. Charlot trova per caso un neonato abbandonato e decide di crescerlo come fosse suo figlio. I due vivono una serie di vicissitudini assieme, tra il bisogno di sopravvivere e quello di non venire separati.

Il monello si presenta all'inizio come "un film che fa sorridere e, magari, piangere", e riesce perfettamente nel suo intento. La commedia slapstick di Chaplin riesce ancora a far ridere, e la delicatezza interpretativa sua e di Jackie Coogan, interprete del monello del titolo, riesce a strappare delle lacrime. Il pregio maggiore del film è certamente la genuinità del rapporto creatosi tra il bambino e il suo padre putativo. L'affiatamento evidente tra i due ci rende interessati alla loro vicenda, coinvolti. Il culmine emotivo è la famosa sequenza in cui Charlot si lancia all'inseguimento della carretta dei funzionari che volevano portargli via il bambino.

Alla tenerezza del legame tra i due protagonisti si aggiunge la critica sociale, tipica dei film del comico. Chaplin affronta, sempre con un sorriso, le condizioni di vita di questa famiglia non tradizionale e i sotterfugi che devono assumere per sopravvivere in un mondo in cui le istituzioni remano loro contro.

Il monello è un piccolo gioiellino con protagonisti carismatici, un'ottima introduzione al cinema di Chaplin con una colonna sonora (composta dallo stesso regista) che restituisce l'incanto dell'infanzia.


LA PALLA Nº 13 (Sherlock Jr., 1924), regia di Buster Keaton

Di Luca Martinelli

Buster Keaton in La palla nº 13 (1924)

Buster Keaton rappresenta forse il genio applicato al cinema muto. Keaton si contrappone al sentimentalismo di Chaplin: egli è l’artista genio, che con un’azione riesce a svoltare completamente il suo film. Fa ridere senza alcun contrappeso di tipo moralizzante e/o borghese: il suo film Saltarello vuole divertire con l’arte e mostrando il potere dell’arte, e si pensi che One Week è celebrato come esempio di arte cubista al Museo del Prado.

La palla nº 13 indaga il potere del cinema: la trama è semplice e si svolge in 45 minuti. Un proiezionista sogna di diventare un detective. Verrà incolpato però di un furto. Arrivando al lavoro, il personaggio si addormenta: da quel momento in poi, le gag si susseguono una dopo l’altra, per arrivare ad un finale lieto seppure vagamente beffardo. 

Keaton realizza due aspetti fondamentali del cinema. Il primo è il cinema come intrattenimento e macchina di divertimento: mai lo slapstick ha toccato vette così alte. Il secondo è una riflessione su cosa è il Cinema. Il comico risponde in maniera metacinematografica, con qualcosa che anticiperà il surrealismo di Bunuel, 8 e ½ di Fellini e Inland Empire di Lynch: il Cinema non è altro che sognare in altro sognare, per potersi immergere in una dimensione che non è chiaramente quella del reale, ma quella dell’onirico, ma anche dell’impossibilità di distinguere questo sognare dalla realtà concreta. È la magia, l’illusione, il gioco di prestigio di Orson Welles nella prima scena dello spettacolare mockumentary F for fake.

Se Chaplin rappresenta per il pubblico la consolazione dalle amarezze della vita, Keaton rappresenta per noi lo stupore nonché quella parola carica di significato che attornia tutta l’arte cinematografica: mistero.

ELLA CINDERS (1926), regia di Alfred E. Green

Di Fhe Pacifico

Lloyd Hughes e Colleen Moore in Ella Cinders (1926)

Al centro di questo film comico troviamo Colleen Moore nei panni della protagonista: una giovane ragazza che, proprio come nella famosa storia di Cenerentola, è costretta a sottostare alla matrigna e alle sorellastre, svolgendo i lavori più umili. Se, però, Cenerentola trova il suo riscatto nella festa al castello del principe, la nostra protagonista s'imbatte in una possibilità di autodeterminazione nell'imminente concorso per aspiranti attrici tenutosi nella sua città. Fondamentale in questo momento è il ritrovamento di un manuale di recitazione della matrigna, che Ella usa per esercitarsi da sola davanti allo specchio, imitando diverse espressioni. 

Il film è, per tal motivo, forse uno dei più importanti movies about the movies dei primi vent'anni della storia della cinema, per due ragioni. 
La prima è la presenza del manuale, molto comune in quegli anni per soddisfare il cinema craze, la mania del cinema, il pensiero secondo cui chiunque poteva diventare un attrice o un attore e ciò fosse possibile esercitandosi a casa da solǝ . 
La seconda invece è la messa in scena di ciò che sta cercando l'industria cinematografica: autenticità. È sin dai primi manuali, che si sottolinea come alcune caratteristiche fisiche siano importanti se si vuole essere un'attrice o un attore ma, al contempo, come il cinema cerchi figure autentiche e capaci di spiccare. Nella protagonista del film tutto ciò è molto visibile, specialmente nel momento in cui deve posare per la foto per il concorso: mentre tutte le altre concorrenti sono bellissime e perfette, Ella si contrappone a loro scattando una foto in cui fa una smorfia per la presenza di una mosca. Sarà questa foto bizzarra a farla vincere e sarà la perseveranza di situazioni comiche e bizzarre, ma che metteranno in scena le sue vere capacità, a farla apprezzare nell'industria cinematografica.


AURORA (Sunrise: A Song of Two Humans, 1927), regia di Friedrich Wilhelm Murnau

Di Laura Astarita

George O'Brien e Margaret Livingston in Aurora (1927)

Aurora è il primo film che il celebre regista tedesco accetta di fare ad Hollywood. Per "adeguarsi" al cinema americano, Murnau sceglie di portare sullo schermo uno script abbastanza semplice: una storia d'amore. La trama, infatti, è semplice, lineare, in pieno stile Hollywood anni '20. 

Una coppia di contadini, con un figlio e una fattoria di proprietà, vive una crisi. Il marito, infatti, ha un'amante. Una notte, quest'ultima propone al contadino di vendere la fattoria e venire con lei a vivere in città, ma per farlo lui dovrà uccidere sua moglie. 
Il piano però, non va a buon fine: durante la gita in barca nel corso della quale avrebbe dovuto compiere il delitto, il contadino sceglie inaspettatamente di risparmiare sua moglie. In uno stato di semi-shock per la quasi-aggressione del marito, la ragazza scende dalla barca e si reca alla chiesa del paese. Il marito la segue. A parer mio, quella che segue sarà una delle scene più belle del cinema muto. I due siedono sulle panche e osservano, sull'altare, una coppia di giovani che si sta sposando. In quel momento, moglie e marito si guardano negli occhi e ricordano tutto l'amore che li aveva uniti un tempo. La storia d'amore del film infatti non rappresenta due amanti sfortunati, ma una coppia di umani che ha il coraggio di perdonarsi e riscoprirsi ogni giorno per tenere fede a un giuramento.

Consiglio Aurora di Murnau ai principianti perché è un buon film per adattare il proprio gusto contemporaneo ai tecnicismi del cinema muto (dissolvenze, immagini in sovrimpressione, cartelli, presenza "scenica" molto teatrale degli attori). La pellicola, infatti, è un prodotto di una grande regia che non solo vi farà "accettare" queste convenzioni a noi oggi estranee, ma che, secondo me, ve le farà addirittura amare ed apprezzare.


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