E se amassimo come un essere umano vissuto nella latinità?

Di Sara Lodi

Sicuramente chi ha appena letto il titolo di questo articolo è stato attraversato da un brivido potente: tutto ciò che ha a che fare con il “latino” ha la capacità di spaventare e annoiare allo stesso tempo. Le cinque declinazioni ripetute fino allo sfinimento, i verbi, con tanto di deponenti, semideponenti e anomali annessi, la sintassi astrusa, e una buona dose di terrore infusa dai professori rendono lo studio della materia decisamente ostico. Eppure, quanto più ci si immerge nella lingua, tanto più si scoprono anche cose veramente fighe. Okay, tipo? Ho scoperto che l’uomo primitivo sente il tempo che scorre in modo concreto, come se fosse un «flusso continuo in cui è immerso»; Alfonso Traina, l’autore di Propedeutica al latino universitario, lo spiega così, come se il tempo fosse tangibile.

"Amore e Psiche" di Antonio Canova

Il riflesso linguistico di tale esperienza è la categoria dell’aspetto. Per capire meglio, si prenda: “mangio” e “sto mangiando”: in entrambi i casi si mangia nel presente, ma in “mangio” il valore di continuità è implicito, mentre in “sto mangiando” è come se si osservasse l’azione al rallentatore, prima però che diventi passato. Perché l’aspetto di un verbo venga percepito dai parlanti, esso deve misurarsi con un suo opposto. In latino vi sono due opposizioni fondamentali: incompiuto/compiuto, ovvero un’azione in corso di svolgimento e un’azione che ha raggiunto la sua realizzazione; e durativo/momentaneo, quindi un’azione che si dipana nel suo durare senza che si sappia fino a quando e una che viene catturata in un preciso momento del suo svolgimento, che può essere all’inizio o alla fine. Bene, ora che ho fatto un brevissimo accenno alla categoria dell’aspetto del verbo latino, è necessario spiegare come lo viviamo noi, il tempo. Ogni azione che compiamo, la collochiamo in passato, presente e futuro rispetto al momento in cui la raccontiamo. Questa tripartizione del tempo ci permette di pensare alle cose in maniera astratta e più libera. 

Alla luce di questo pippone, cosa succederebbe se analizzassimo il verbo “amare” da un punto di vista aspettuale? 

“Amantem” è il participio presente del verbo amare, e si traduce in italiano con “amante”, mentre il suo participio perfetto è “amatus”, “amato”. In italiano, il participio presente esprime un’azione in corso di svolgimento, mentre il participio perfetto un’azione conclusasi nel passato. Si ama e si è stati amati. Nel participio perfetto l’azione dell’amare ha raggiunto il suo compimento e appartiene al passato. Eppure non sono certa che questo modo di ragionare estremamente logico e razionale sia adatto all’amore. 

Immagino due persone che si innamorano e intraprendono una relazione, e che dopo anni, per un qualsiasi motivo, si lascino. Il sentimento che li ha uniti non li abbandona nel momento in cui decidono di interrompere il loro rapporto, non passano da “amanti” ad “amati” (nel senso latino del termine) in maniera improvvisa. L’amore è un qualcosa che non può essere incatenato in un rigido sistema di opposizioni; non è incompiuto o compiuto; non raggiunge l’apice della sua essenza per poi spegnersi e concludersi di colpo. 

Forse delude prendere consapevolezza del fatto che non si possa scegliere razionalmente di non amare più, perché fa soffrire molto di più: infatti “deludere” in latino significa “smettere di giocare”.  L’amore rimane e cresce anche se la persona amata se ne è andata, oppure muta, può diventare affetto, può scaturire nel suo opposto: ma rimarrà sempre e comunque un prodotto dell’amore. 

"Adone e Venere" di Antonio Canova

Perciò alla domanda che mi sono posta poco fa, risponderei che, analizzando il verbo "amare" aspettualmente, si perderebbe la complessità che caratterizza questo sentimento così potente. L’amore è paradossale e Amor, la parola con cui lo chiamiamo, sfugge da qualsiasi schematismo linguistico: necessita di essere analizzato con una cura che tenga in considerazione le sue sfaccettature. 



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