È stata la mano di Dio: il racconto di una giovinezza incerta

Di Nicole Mazzuccato

Il premio Oscar Paolo Sorrentino torna al cinema con È stata la mano di Dio (2021). La pellicola è stata presentata alla 78esima edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincendo il Gran premio della giuria. La produzione e la distribuzione sono state affidate a Netflix.
La piattaforma, inoltre, è stata oggetto di polemica nei giorni scorsi. I cinema scelti per la proiezione sono limitati alle grande catene, puntando invece alla fruizione digitale. Il film infatti sarà disponibile dal 15 dicembre online. È inutile dire che il lavoro del regista è stato girato per essere visto sul grande schermo.

Fonte: Lucky Red

La vicenda è interamente ambientata nella vivace Napoli degli anni Ottanta. La trama vede due linee principali: l’arrivo di Diego Armando Maradona nella squadra di calcio della città e le vicissitudini del diciassettenne Fabietto Schisa (Filippo Scotti). L’adolescente è circondato da una ricca folla di vicini di casa e da una caratteristica famiglia allargata.
L’intera pellicola consta di un continuo intreccio tra le narrazioni e l’intrusione delle storie personali dei personaggi, instaurando un particolare rapporto con il pubblico.
Il soggetto della pellicola è ampiamente autobiografico, in una sorta di buildungsroman, l’amacord alla Sorrentino (Fellini infatti è citato a più riprese). Il regista a cuore aperto racconta la propria storia, infarcendo il lungometraggio di nostalgia e di emozioni contrastanti. È la prima volta che Sorrentino cerca di avvicinare il pubblico in un rapporto empatico con i personaggi. Il nucleo narrativo è completato da un’ineccepibile regia, che indugia sui volti scavati dai sentimenti e dai ricordi. 

Non solo: Napoli viene inquadrata in tutta la sua bellezza, tra scorci cittadini e marittimi. Il contesto famigliare è racchiuso proprio da queste inquadrature, in una sorta di bolla protettiva. Il regista ha quasi voluto rappresentare un ricordo così protetto e prezioso in una dimensione atemporale e felice. I gesti e i volti, inoltre, aggiungono una genuina cornice al racconto principale. Essi rappresentano donne al lavoro, mani che si intrecciano, sorrisi che aleggiano nell’atmosfera gioviale di un pranzo famigliare.

Fonte: Lucky Red

Per quanto riguarda, invece, le interpretazioni, si nota la prova attoriale di Filippo Scotti (n.d.R: vincitore a Venezia del premio Marcello Mastroianni). L’attore ha saputo dosare in un equilibrio eccezionale il linguaggio verbale con un’espressività mai esagerata. Inutile citare la bravura di Toni Servillo, nel ruolo del padre di Fabietto, Saverio Schisa. Una menzione d’onore per Luisa Ranieri, nei panni di Patrizia, magnetica musa “maledetta” , centrale nella pellicola.

Attenzione: da qui in poi l'articolo conterrà spoiler.

Trovo indicativo soffermarsi su tre scene in specifico del film. La regia e le interpretazioni raggiungono in questi acme narrativi, picchi degni di nota.

La prima scena riguarda l’annuncio ai fratelli Schisa della morte dei genitori a causa dell’esalazione di monossido di carbonio. Il fratello maggiore, Marchino, comprende immediatamente la situazione e cade in un pianto doloroso. Fabietto entra in un meccanismo di negazione e nega a se stesso il fatto. Poco dopo, il ragazzo irrompe nelle diverse sale dell’ospedale chiedendo ai medici di fargli vedere i corpi dei genitori. Sorrentino ha optato prima nell’inquadrare i volti dei due fratelli, per concentrarsi poi su Fabietto. Il regista passa quindi da inquadrature più ampie a ristrette quasi per sottolineare la sofferenza del giovane. La fotografia in questo particolare frangente risulta cupa e scura, quasi premonitrice e luttuosa.


Fonte: Lucy Red

La seconda scena da considerare è il dialogo tra Fabietto e la zia Patrizia ricoverata in ospedale psichiatrico. Il nipote continua ad essere confuso riguardo il suo futuro. Cerca di confidarsi con la zia, ora in preda ad una forte depressione. La condizione della donna è sottolineata da inquadrature che mettono in risalto il suo volto sofferente, però bagnato da una luce calda. La luce in questo caso è sintomo di ciò che vede Fabietto: una donna e una musa, come lui stesso afferma. Questa luce però cala nel buio nel momento della confessione dell’aborto spontaneo della donna, in cui una fotografia scura irrompe nuovamente. La fotografia, come in precedenza, sottolinea l’imminente tragedia che si svolgerà o verrà raccontata.

Infine, il film si conclude con un dialogo tra Fabietto e un noto regista italiano, Antonio Capuano. Il giovane chiede a Capuano cosa significhi fare cinema. Capuano risponde che bisogna raccontare il dolore e la solitudine. Il giovane qui ricorda la frustrazione di quella notte in ospedale in cui richiedeva di vedere i propri genitori. La scena è qui costruita su uno scorcio marino, tinteggiato da una luce tiepida. Le inquadrature serrate dei due dialoganti riportano ad una struttura teatrale, finché Sorrentino si allontana dal palcoscenico della scena. La frase di Fiabetto in cui afferma lo schifo nei confronti della realtà e il suo rifugio nel cinema, si racchiude in un’inquadratura. La camera arretra e spia da una porta di uno scorcio naturale il tuffo del regista Capuano in mare. Questo sottolinea lo stesso allontanamento di Fabietto verso un’altra meta: il futuro.

La pellicola è una delle migliori prove registiche dell’anno, che nella semplicità del racconto personale si staglia per bellezza. L’estetica anche decadente della città di Napoli, le sue contraddizioni e la tradizione secolare, sono dipinte a tinte nostalgiche. La storia personale di un ragazzo incerto e di un dramma che spazza la felicità ingenua, ritraggono la fragilità della crescita umana.


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