Di Nicole Mazzucato
Dopo 2 anni di attesa, Wes Anderson ritorna al cinema con The French Dispatch of Liberty, Kansas Evening Sun. La pellicola è stata presentata al Festival di Cannes questo luglio, ricevendo recensioni positive. Il film, come dichiara il regista, è una lettera d’amore al giornalismo. Anderson unisce il suo amore per l’editoria, in specifico per la rivista The New Yorker, e la melanconia tipica delle sue opere.
Questa recensione è spoiler free.
Photo courtesy of Searchlight Pictures |
La vicenda è suddivisa in 4 parti. Ogni sezione è dedicata agli articoli che compongono l’ultimo numero del The French Dispatch. Questo esce in concomitanza alla morte del suo direttore, Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray).
La prima parte (The Cycling Reporter) vede Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) descrivere la città in cui sono ambientate le cronache riportate, ovvero Ennui-sur-Blasè (tradotto Noia-sopra-Apatia).
La seconda storia (The Concrete Masterpiece) è narrata da J.K.L Berensen (Tilda Swinton). Racconta le vicende di un artista pazzo e rivoluzionario, Moses Rosenthaler (Benicio del Toro).
La segue Revisions to a Manifesto, scritta da Lucinda Krementz (Frances McDormand). La giornalista si focalizza sulle proteste degli studenti di marzo (si intuisce del '68) che vedono protagonista Zeffirelli (Timothée Chalamet), un giovane rivoluzionario.
Infine abbiamo The Private Dining Room of the Police Commissioner, di Roebuck Wright (Jeffrey Wright), inizialmente dedicato al cuoco Lt. Nescaffier (Stephen Park). Successivamente l'articolo prende una piega più “thriller-comica”.
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È difficile elencare tutte le influenze di Wes Anderson in questa pellicola. Si deve innanzitutto notare la circolarità del lungometraggio che si apre e si chiude sulla figura del direttore del giornale. Senza di lui l’attività dei reporter non sarebbe possibile. Howitzer infatti ingaggia i giornalisti che inseguono una “cronaca del mondo”, senza demistificarla.
Questo è reso evidente dall'impostazione che Anderson sceglie di dare al suo film. Ogni storia è narrata dalla voce del giornalista che l’ha scritta e presenta un proprio stile distintivo. Vi è, quindi, un continuo cambio di tecniche cinematografiche. Il film alterna istanti in bianco e nero e a colori, per enfatizzare ciò che il reporter intende evidenziare, fino all’entrata dell’animazione.
Secondo il suo inconfondibile tocco, Anderson estremizza la realtà da lui rappresentata. Infatti la cinepresa vola attraverso interni improbabili di aerei, appartamenti, teatri, prigioni fino alle barricate in piazza. La tecnica andersoniana viene qui sfruttata al massimo ottenendo un effetto macchiettistico e unico. Il tutto è legato dalla continua entrata e uscita di personaggi, ognuno segnato da una propria particolarità. Il cast della pellicola è immenso e vanta nomi di grande importanza che il regista ha saputo valorizzare.
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Si potrebbe criticare la monodimensionalità delle personalità ritratte sullo schermo, ma il modello a cui si ispira il regista parla per sé: la Nouvelle Vague. Il cinema francese è un grande elemento che lavora sullo sfondo della pellicola. Si trovano similarità con I 400 colpi (1959) di François Truffaut (in generale con tutta la saga dedicata al personaggio di Antoine Doinel), con le pellicole di Jean-Luc Godard e di Eric Rohmer. I personaggi della Nouvelle Vague sono macchie impressioniste su una realtà che il regista vuole dipingere come tale, tra studenti in rivolta, prostitute, uomini annoiati e sul lastrico etc.
Un esempio eccezionale è Zeffirelli, uno studente in crisi rispetto ai suoi ideali che scrive un manifesto nel momento massimo di contestazione (anche fisica) contro le istituzioni. Un ragazzo ribelle che cerca la libertà, quella stessa libertà che la reporter si prefigge di raccontare attraverso le proprie parole. Quella cronista che dice di “essere neutrale” e mantenersi tale, in fondo non lo è. Lei stessa è parte della realtà che cerca di raccontare. Questo bisogno di libertà è presente in tutte le storie narrate, nell’accezione dell’espressione artistica e in quella di ricerca del proprio credo, attraverso la perdita di qualcosa di caro.
Photo courtesy of Searchlight Pictures |
Per quanto riguarda le interpretazioni, è impossibile giudicare ogni singola prova attoriale di un cast corale così folto. Notevole è Frances McDormand, impeccabile nel ruolo della giornalista solitaria, in cerca di compagnia nell’altro più giovane e nella furia della società in cambiamento. Tilda Swinton e Adrien Brody sono le “macchiette” per eccellenza di Wes Anderson, che affida a loro ruoli sempre più complessi e fuori dagli schemi. Infine abbiamo Timothée Chalamet, il personaggio della Nouvelle Vague per eccellenza. L'attore riesce finalmente ad esternare la propria versatilità espressiva, tra il malinconico, il freak e il naive.
La pellicola nel complesso rappresenta la varietà e il caos di un mondo passato e inventato, che esce dalla mente di Anderson nella sua unicità. Le atmosfere create attraverso astuti primi piani, costruzioni minuziose delle scene e una narrazione coinvolgente e mai banale, mostrano tutto il genio creativo del regista. Un’opera che deve essere vista in tutta la sua esplosività e vissuta abbandonandosi al caleidoscopio dell’essere umano.
Trailer del film The French Dispatch
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