The Wolf of Wall Street: un esperimento (quasi) fallito

Di Elena Di Ruvo 

I film biografici sono tra i generi che vanno per la maggiore, al cinema. Se poi uniamo questo fattore a un regista come Martin Scorsese (che oggi compie gli anni) abbiamo creato il cocktail perfetto. Come si dice: un nome, una garanzia. Il suo lupo di Wall Street (interpretato magistralmente da Leonardo Di Caprio) ti tiene incollato allo schermo per quasi tre ore, facendoti entrare di prepotenza nella vita del broker americano Jordan Belfort, di cui in particolare viene immortalata l’esperienza con l’alcol, il sesso e le droghe pesanti.

Leonardo Di Caprio in una scena del film

La vita di Jordan è narrata come la classica linea di chi diventa famoso e si trova all’apice del successo, ma a cui basta un passo falso per sentire la terra scivolargli sotto ai piedi: un cliché arcinoto. Eppure, il modo in cui viene rappresentato quello che solo negli ultimi quaranta minuti diventerà un vero e proprio dramma per il protagonista, è assolutamente irriverente e assurdo, grazie a tecnicismi registici che puntano sull’ego smisurato dell’uomo per mezzo di strategie come i primi piani o le diverse occasioni in cui l’attore rompe la quarta parete. Penso che un certo Ryan Reynolds lo abbia copiato.

Per le prime due ore e quaranta circa, l’opera si presenta come un enorme contenitore gonfio, pompato di discorsi e stereotipi sulla droga e il sesso che sembrano non andare a parare da nessuna parte, se non per un gusto fine a se stesso (o perlomeno, quello di descrivere la vita sregolata del protagonista). Poi il film prende una piega diversa, mostrando l’intenzione di dare più spessore al discorso. Insomma, portare più carne al fuoco della trama. 

Assistiamo al dramma della separazione con la moglie Teresa, le beghe economiche che portano Jordan sulla cattiva strada nei confronti dell’FBI… il tutto col discorso della droga (ma di quella bella forte) a farla da padrona, alternando così momenti di tensione a scenette tragicomiche. Ed ecco che veniamo di nuovo sprofondati nel limbo della vacuità.

C’è da ammettere che se la trama presenta punti morti qua e là, viene comunque ben compensata da un cast di tutto rispetto. A cominciare da uno splendido Leonardo Di Caprio, nei panni – anzi, nella divisa – del broker americano bastardo; un Matthew McConaughey vacante ma di impatto (il suo discorso a inizio film è una perla di bravura rara); arrivando a spalle comiche assolutamente disagianti come Donnie, interpretato da Jonah Hill, fino a una primissima Margot Robbie in veste della provocante moglie Naomi Lapaglia (e perché no? La strizzatina d’occhio al cliché della moglie italofila immigrata potevamo forse farcela mancare?).

Margot Robbie e Leonardo Di Caprio in una scena del film

Siamo chiari: la quantità di ore che occupa questo film è destabilizzante, ed è un fatto; ma in fondo siamo stati abituati a molto peggio. Quello che, forse, può suscitare disapprovazione e, nel caso degli appassionati del regista, anche divisioni, è esattamente il fatto che queste tre ore passino con una certa difficoltà, per colpa di una trama che, in fin dei conti e usando una parola “giovane”, non è al top. Io stessa mi sono ritrovata più volte a controllare a che punto fossi per verificare quanto mancasse alla fine. Certo, alcune situazioni mi hanno anche fatto ridere; ma ad essere sincera, non è comunque un film che riguarderei. Se lo consiglio? Nì. 

Quel che è certo è che non è un film per tutti: si respira un’atmosfera pesante riguardo agli argomenti della droga e del sesso (il più delle volte, ammettiamolo, lanciati lì senza un motivo troppo apparente); e chi non è vicino al tema o non lo apprezza particolarmente, non è invogliato a seguire la pellicola. Da parte mia, penso che si possa cercare di compiere un piccolo sforzo; se non altro, per apprezzare la bravura registica e attoriale. Poi, se la trama non risponde alle richieste del pubblico, pace.

D’altro canto, è sempre difficile riuscire nell’impresa di trattare simili tematiche a cuor leggero. Ma alla fine, direi che anche non guardare il film non sia tutta questa gran perdita. 

È forse uno scivolone di Scorsese? Poteva evitarlo? A voi l’ardua sentenza.

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