Encanto: la formula della famiglia funziona ancora

Di Elena di Ruvo

Parlare di un film come Encanto è una bella sfida, con tutto quello che si potrebbe dire a riguardo. Proverò a riassumere nel modo più breve possibile, spiegando le ragioni che mi hanno spinta ad apprezzarlo particolarmente e quali punti di forza lo rendano qualcosa di unico nel suo genere. 

Il film è diretto da Byron Howard e Jared Bush, per le musiche di Lin-Manuel Miranda (Hamilton, Oceania); uscirà su Disney+ domani, 24 dicembre. In sala è stato preceduto dal corto Lontano dall’albero (regia di Natalie Nourigat). 
Ambientato in Colombia, segue la protagonista Mirabel che, insieme alla numerosa famiglia Madrigal, vive in una casita animata grazie al potere di una candela incantata, in grado di conferire ad ogni membro un talento speciale. Si scopre presto che Mirabel è l’unica a non possederne nessuno, cosa che la spinge a fare di tutto per ottenere il riconoscimento della famiglia. L’incolumità dei Madrigal viene messa a repentaglio quando la casa comincia a riempirsi di crepe e nessuno sa interpretare il messaggio. Soltanto Mirabel potrà salvare la situazione.



Ciò che fa di Encanto un ottimo film è la scelta, in partenza, di ricorrere a una strategia che abbiamo già visto sfruttata in prodotti precedenti, ossia l’ambientazione etnica; siamo memori di esperienze come Coco (2017), ambientato in Messico, il recente Luca (2021, Italia), Oceania (2016, Polinesia), Frozen (2013) e Frozen 2 (2019, Norvegia), fino ai tempi meno recenti di Brave (2012, Scozia). C’è un interesse crescente, per entrambe la Disney e la Pixar, nell’approfondire culture ed etnie sempre più variegate. 
A questo si accompagna un altro elemento fondamentale e che ritroviamo molto spesso nei loro prodotti: la famiglia. Mirabel fa parte di un nucleo eterogeneo in cui ogni componente costituisce un pezzo importante del mosaico. Questo aspetto, però, mette in luce già una prima problematica: non essendo dotata di alcun talento o potere speciale, la protagonista diventa un “pezzo anomalo”, l’elemento disturbante che causa continui problemi. Un notevole passo in avanti in casa Disney, dato che per la prima volta abbiamo un protagonista antieroe: quello che invece di costruire un equilibrio nell’ambiente in cui vive, lo destabilizza. La trama si rimetterà poi sui “binari” canonici della fiaba, che vede il personaggio principale chiamato a risolvere l’intreccio. Non è importante scoprire che Mirabel non ha un talento, quanto piuttosto conoscerne le conseguenze e il modo in cui la ragazza reagisce alla cosa; specialmente quando si tratta di rimettere insieme i pezzi di una famiglia che si rivela essere non così perfetta come vuole far credere.

In effetti, se può sembrare scontato proporre per l’ennesima volta il cliché della famiglia in un film Disney, il motivo di svolta in questo stereotipo sta nello sfruttamento di immagini semplici, come le crepe che Mirabel comincia a vedere sui muri della casita, per avviare una tematica ben più amara e profonda: il conflitto interiore. Il film affronta l’argomento su più livelli e per più personaggi, ma la questione principale rimane una sola: una famiglia in conflitto non potrà mai restare unita. Col pretesto di salvare la magia che sta sparendo dal villaggio di Encanto, riunire i Madrigal diventerà la missione di Mirabel.


Da qui la recensione contiene spoiler.

Farci vedere le fratture, per di più, ci avvicina sensibilmente alla questione della lotta generazionale, in cui vengono messi a nudo quei principi che avevano mosso la vita di una abuela, Alma, poco incline ad accettare il cambiamento che propone la nipote. Cresciuta con la concezione di una famiglia perfetta sotto ogni aspetto, Alma esige e pretende di traslare lo stesso quadro alla sua, di famiglia (al punto che Luisa, la sorella dotata di forza sovraumana, non appena si accorge di non averne più nemmeno per sollevare un vaso, va letteralmente nel panico)… per rendersi conto che questa mentalità, con i tempi che cambiano, non può essere più applicata. Agli occhi di Alma, Mirabel, nella sua totale normalità, non sarà “mai abbastanza”, e alla ragazza la cosa non sta affatto bene. È paradossale, quindi, come il desiderio di ribellarsi e di cambiare, per sanare una famiglia in frantumi, lo possieda l’unico membro senza un talento – che debba quindi contare solo sulle proprie forze.

Serve capire una cosa dell’adattamento italiano: l’inglese “gift” è stato tradotto con “talento” e questo rende ambigua la comprensione del film, così come il messaggio di fondo. Il punto non è avere talenti incredibili, come saper ascoltare a miglia di distanza come Dolores o guarire col cibo come Julieta; è una questione di saper accettare se stessi per come si è, nei pregi ma soprattutto nei difetti. Mirabel sa essere molto umana in questo, esprimendo emozioni discordanti e un carattere conflittuale: cosa che avevamo già trovato nel personaggio di Merida in Brave.
La stirpe Madrigal ha sempre prosperato trovando nuovi talenti – o meglio, doni – che mantenessero vivo il miracolo lasciato dal sacrificio di abuelo Pedro [reincarnatosi, secondo la mia personale interpretazione, nella fiamma della candela incantata], ma senza creare davvero dei contatti tra i componenti. Serviva quello che definiremmo l’anello debole per far capire alla famiglia il bisogno di riavvicinarsi, sottolineando ancora una volta quanto sia fondamentale imparare ad amare se stessi prima di amare gli altri. 
È un concetto che viene messo bene in evidenza con la caratterizzazione di due personaggi diametralmente opposti come Luisa e Isabela. La forza fisica della prima serve a poco se la sua sanità mentale non è salvaguardata, cosa che comporta il costante rischio di implodere. Luisa accetta addirittura di annullarsi, pur di non negare l’immagine che tutti si sono fatti di lei. Non lo dice a nessuno, ma il livello di pressione sociale la fa uscire spesso dal suo baricentro, chiedendosi più volte che farebbe se un giorno dovesse “vacillare”. 



Dall’altra parte abbiamo Isabela, che dovrebbe rappresentare l’equilibrio, la perfezione e la calma interiore tramite i fiori eleganti che produce; si trova, invece, incastrata in una situazione che non ha scelto, dovendo sposare un uomo che non ama e fingendo di essere, fondamentalmente, quella che non è. La scoperta del cambiamento (attraverso lo sbocciare di una piantina di cactus in uno sfogo di rabbia con la sorella) la stupisce, ma ciò non significa che non sia disposta ad accettarlo; la consapevolezza di poter creare nuove piante, spaziando da delicate orchidee a cactus e piante carnivore, si presenta come l’allettante prospettiva di una nuova sfida, un modo diverso di guardare la realtà.


Dal punto di vista tecnico, guardando il film non si può fare a meno di restare estasiati dalla sua qualità visiva. La bellezza della Colombia viene valorizzata dai colori vivaci e brillanti, i motivi musicali accattivanti e una certa quantità di riferimenti culturali dal mondo latinoamericano (empanadas, arepas, orchidee, abiti e animali tipici).

Lin-Manuel Miranda sa offrire melodie che sposano alla perfezione lo spirito del paese; le canzoni, come la colonna sonora, accompagnano armoniosamente i movimenti fluidi dei personaggi, che riescono a mettere in risalto i motivi dei singoli vestiti – anch’essi pieni di simbologie. Basti pensare alle linee dritte sulla camicia di tio Felix, rimando alla razionalità che lo caratterizza (fonte: MsMojo). Il colore e la forma dell’abito di Isabela richiamano il fiore della jacaranda, di cui lei stessa canta nella sua canzone. 
Per questi (e altri) motivi, pure la musica gioca un ruolo importante riguardo alle metafore dietro la trama generale: ogni brano ha un motivo specifico, associabile allo stato d’animo del personaggio in questione. La canzone La pressione sale, ad esempio, si discosta volutamente dalle tonalità di tutti gli altri, avvicinandosi più allo stile techno/pop, con un ritmo martellante che sa restituire molto bene il nervosismo di Luisa in quel momento. O ancora, Non si nomina Bruno è strutturato come un tango, con scambi di parti singole, controcanti e cori che inscenano le prospettive dei vari personaggi riguardo alle profezie di tio Bruno, da sempre considerate nefaste per tutti e che furono il principale motivo del suo allontanamento. Infine, la canzone di Mirabel Un miracolo segue lo schema del valzer.

Insomma, ci sarebbero tante altre cose da dire, ma purtroppo ho già scritto più del dovuto. 
In conclusione, ho apprezzato molto l’innovazione dietro a trovate come, appunto, il tema usato e “abusato” della famiglia ma analizzato sotto una prospettiva completamente nuova. In un simile ambito, film corali come Encanto funzionano proprio perché danno la possibilità di presentare più punti di vista e opinioni sulla stessa questione. Non si ha un’idea completamente giusta o una completamente sbagliata; si dà piuttosto la possibilità di rivalutare ciò che credevamo una verità assoluta entrando nella psicologia di chi ne parla. I protagonisti sono messi di fronte alle loro nemesi (abuela/Mirabel in primis) in un percorso di formazione che serva a entrambi per crescere, rendendoli più consapevoli dei limiti e delle imperfezioni di ciascuno. 


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