“Squid Game” e il problema del doppiaggio

Di Elena Di Ruvo

È ufficialmente uscito il doppiaggio italiano di uno della serie più famose e apprezzate nella storia di Netflix, ed è già polemica. La questione è semplice: c’è chi vorrebbe vedere tutto doppiato in italiano, perché lo ritiene il mezzo più efficace per rendere il prodotto fruibile a tutti, e chi semplicemente preferisce il contrario. Entrambe le fazioni portano ottime ragioni per esprimere il proprio pensiero, che però a volte diventa talmente radicato da rendere quasi impossibile ragionarci.

Siamo sinceri: lo sfruttamento dei social media ha permesso a chiunque di manifestare la propria opinione, nella totale libertà di espressione; eppure, non si può negare che ci sia una certa obiettività nel preferire un’opzione rispetto all’altra.

Prima di tutto, perché Squid Game è stato doppiato? Certamente, la risposta risiede in una necessità di Netflix di mantenere il proprio prestigio economico e non solo, rendendo il prodotto, come abbiamo detto, fruibile a tutti sfruttando, appunto, il doppiaggio (sia questo in italiano, spagnolo o francese). In questo modo, più utenti (ri)guardano la serie, più Netflix ci guadagna. Ma già qui emerge un problema, nonché il nocciolo della nostra questione: come si può rendere, in una lingua che non è il coreano, lo stesso stile, la stessa parlata, in breve la stessa sensibilità che un italiano, un russo, un tedesco - per forza di cose - non ha? È una questione spinosa e tutt’ora aperta, che molti utenti (così come i professionisti del settore) hanno intenzione di approfondire.

Non è necessario essere il migliore esperto di doppiaggio per capire che una lingua come la nostra non potrà mai riprodurre gli stessi suoni e le tonalità del coreano. Quello che, però, lo spettatore medio forse non tiene in considerazione è l’enorme quantità di lavoro che si cela dietro al doppiaggio di una serie come questa: il numero di responsabilità che riguardano il lavoro di traduzione, come di adattamento, rendono il carico ancora più pesante. Una serie così di successo ha bisogno di essere seguita minuziosamente, per non deludere nessuno degli appassionati. È un ambiente ansiogeno, in cui il minimo errore può costare critiche anche pesanti.

Ciò che sta alla base di un doppiaggio fatto bene è la conoscenza in primis del paese di provenienza; rivolgendoci alla Corea, sappiamo quanto la sensibilità orientale sia assai differente rispetto alla nostra: lo notiamo già dalla scelta del titolo, così come nell’uso di espressioni fortemente radicate nella cultura, espresse ad esempio nella frase che ripete la bambola robotica durante il primo gioco: letteralmente, “il giorno in cui fiorisce l’ibisco”, tradotto in italiano con “un, due, tre, stella”. Ciò nonostante, la traduzione in qualsiasi lingua occidentale funziona proprio perché il principio del gioco stesso rimanda a un codice riconosciuto a livello globale, che è in effetti “un, due, tre, stella” (in inglese “red light, green light”. Che poi in origine fosse “un, due, tre, stai là” è un’altra storia).

Quello che magari manca a chi critica il doppiaggio italiano, accusandolo di non essere fedele al prodotto originale, è esattamente la sensibilità di partenza nei confronti del paese che crea il suddetto prodotto. Si tratta di mettere in campo strategie linguistiche (e non solo) per far sì che nulla dell’originale venga tralasciato, ma che allo stesso tempo possa essere reso comprensibile nella lingua target. In questo processo di trasformazione, è naturale che dei pezzi si perdano lungo la strada; ma è una condizione con cui è necessario venire a patti, se si vuole continuare a dare prestigio a un lavoro come il doppiaggio che, ricordiamo, parte come un processo assolutamente artigianale - in questo senso, c’è da dire che la fretta degli ultimi tempi di doppiare di tutto e di più non facilita le cose.

In conclusione quella del doppiaggio è una questione complessa, vogliamo dire problematica. Parte tutto dalla volontà di esprimere una certa sensibilità nei confronti del linguisticamente diverso, per permettere a chi ascolta di trovare il giusto equilibrio tra ciò che è accettabile nella sua lingua madre e ciò che, per motivi di necessità, è passato sotto al torchio dell’adattamento.

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