Di Alma Taormina
Nonostante i programmi ministeriali di storia dell’arte arrivino a contemplare fino alla fine dell’Ottocento, e pochi insegnanti si spingano oltre fino alle avanguardie storiche, o addirittura agli anni Cinquanta con Pollock, Rothko e De Kooning, di rado si arriva alla Pop Art. Certamente, quando alla maturità era prevista la tesina (bei tempi), qualcunə ha deciso di parlare di questo stile così caratterizzante degli anni Sessanta. Il modo in cui ci viene presentato, anche all’università alle volte, omette non pochi dettagli della storia.
Atto I: Nascita
New York, primi anni Sessanta. Nell’ambiente artistico della grande mela, dopo il successo di Pollock e dell’Espressionismo astratto, si fa strada un nuovo genere artistico: la Pop art. O almeno, così sembra.
La prima opera pop non è statunitense, bensì inglese: Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? di Richard Hamilton (1956). Questo piccolo collage di carta nasce come desiderio di critica al nuovo stile di vita nell’Inghilterra del secondo dopoguerra: Hamilton percepì l’influenza dello stile di vita americano farsi sempre più forte, e decise di criticare il consumismo, il mondo irreale delle pubblicità e gli ideali di vita propagati andando ad utilizzare lo stesso mezzo, ovvero i rotocalchi. Hamilton, con l’aiuto della moglie, andò a ritagliare immagini di varie pubblicità, dall’uomo muscoloso alla casalinga sorridente ai prodotti in scatola, e li pose in un paesaggio da catalogo di mobili.
Richard Hamilton, Cos'è che rende le case di oggi così diverse, così attraenti?, 1956, collage su carta, 25x26 cm, Kunsthalle Tübingen, Tubinga |
Era nata la Pop art, ma nella sua accezione europea: critica, politicizzata e attenta a ciò che avveniva nel mondo.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, un gruppo di artisti provenienti dal mondo del fumetto e della pubblicità iniziò a esporre i propri lavori, finendo per venir notati dal Leo Castelli, uno dei due più importanti galleristi del mondo insieme alla prima moglie Ileana Sonnabend.
Gli artisti all’inizio vollero creare un nuovo linguaggio che andasse ad opporsi ad uno dei punti cardine dell’Espressionismo astratto, ovvero la presenza del pittore nell’opera. Pollock, De Kooning e gli altri espressionisti facevano parte fondamentale del loro lavoro la totale immersione nell’opera, lasciandosi trasportare dal processo creativo. La Pop art volle quindi andare contro a questa tendenza creando un linguaggio spersonalizzato e in cui fosse impossibile riconoscere l’influenza dell’artista. Nacque così una delle idee di maggior successo: usare la stampa serigrafica per produrre le tele. In questo modo, il lavoro del pittore venne azzerato; ma prima di arrivare a quel punto, vi fu un tentativo di riprodurre i fumetti in grandezza naturale a mano, imitando il retino tipografico e non aggiungendo nessuna interpretazione personale dell’artista.
Questi lavori riuscirono a farsi strada in un mercato dove la figura di Pollock era ormai venuta a mancare (1956) e gli artisti emulavano il suo dripping. L’affermazione statunitense della Pop art avvenne in contemporanea con le prime mostre europee nei primissimi anni Sessanta, grazie alla Galleria Sonnabend di Parigi.
Atto II: Invasione
Venezia, 1964. Alla Biennale, viene assegnato il Gran Premio a Robert Rauschenberg, ma salta all’occhio di molti che non c’è nessuna sua opera nelle sale dell’esposizione. In tempo zero, viene mosso un suo quadro dal consolato americano alle sale della Biennale unicamente per giustificare il premio.
Questo viene raccontato da Enrico Baj nella sua Ecologia dell’arte, alla voce “Pop art”. Baj, come molti altri artisti italiani tra gli anni Sessanta e Settanta, era coinvolto nella politica, esprimendo la sua posizione in opere come Il funerale dell’anarchico Pinelli, un quadro del 1972 che criticava l’evento del 1969 dove Pinelli “cadde incidentalmente” dalla finestra (così dissero i giudici, nonostante prove e testimonianze non supportassero la tesi).
La Pop art senza dubbio ebbe un forte impatto in Italia. Già prima del 1964, artisti come Mario Schifano, abituati ad andare negli USA, avevano visto le prime istanze ed esposto con i nomi più importanti della Pop art, anche nei luoghi più importanti dell’arte contemporanea come le gallerie della coppia Castelli-Sonnabend.
È importante focalizzarsi un momento sul catalogo americano per la Biennale di Venezia: le riproduzioni delle opere e le biografie degli artisti non appaiono sul catalogo generale, come gli italiani e la maggioranza degli stranieri, ma erano su un fascicolo a parte, curato da Alan R. Solomon e dall’Agenzia dell’Informazione Statunitense. Gli artisti, inoltre, non erano quelli che oggi molti associano alla Pop: Morris Louis, Kenneth Noland, Robert Rauschenberg e Jasper Johns.
L’influenza stilistica si fece sentire in modo particolare nell’ambiente romano e quello milanese, e tra le due scuole vi era una forte differenza. A Milano, gli artisti non solo possedevano stili e tecniche diverse, ma un gruppo in particolare (Paolo Baratella, Fernando De Filippi, Umberto Mariani, Giangiacomo Spadari) si spostò dall’asse americanocentrico ed italocentrico per legarsi a ciò che si svolgeva a Parigi col nome di "Figurazione narrativa". Insomma, la maggioranza degli artisti pop italiani erano stilisticamente simili o usavano tecniche simile agli americani, ma erano totalmente ostili agli ideali. Molti rimasero chiusi in una dimensione italocentrica, critica solo di ciò che avveniva a livello nazionale, e pochi osarono avventurarsi al di là del mare e delle Alpi.
Va menzionata Torino, che vide la comparsa di artisti pop innovativi come Piero Gilardi (che dal 1969 al 1980 mollò l’attività artistica per dedicarsi alla militanza politica), nonostante la città fosse la sede dell’Arte povera, una corrente italiana teorizzata da Germano Celant e che vedeva tra le sue fila artisti come Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounnelis e Mario Merz. Anche Bologna, con alcune mostra tra cui la importante Tra rivolta e rivoluzione, mostrò un campionario di opere Pop italiane e non, tutte fortemente politicizzate.
Enrico Baj, Funerale dell'anarchico Pinelli, 1972, Palazzo Citterio, Milano |
Per gli italiani, Andy Warhol era un creatore di cartoline, svuotava ogni soggetto del suo significato, come la sedia elettrica, o trasformava gli oggetti in feticci di una nuova religione, come la scatola di zuppa. Roy Lichtenstein riproduceva enormi fumetti americani con gli aerei statunitensi che durante la Seconda guerra mondiale distruggevano quelli giapponesi. James Rosenquist dipinse l’F-111, un cacciabombardiere che avrebbe dovuto risolvere la guerra in Vietnam, e finì per venir portato in tour per il mondo occidentale, finendo a Roma presentato davanti alle autorità politiche e militari americane di stanza in Italia. In un’intervista del 1968 con Raphael Sorin, l’artista dichiarò che l’F-111 “trattava soprattutto della responsabilità morale di ogni cittadino di una nazione”; anni dopo, Rosenquist disse di aver dipinto l’aereo per contestare la guerra, ma allora perché veniva celebrato anche dai militari? Molti artisti e critici italiani ritennero che cambiasse affermazione unicamente perché celebrare la guerra negli USA era passato di moda.
Nel frattempo, con lo scadere degli anni Sessanta, almeno negli Stati Uniti molti artisti Pop iniziarono ad allontanarsi dalla pittura, interessandosi anche ad altri media come il cinema, ed entrarono in contrasto con la Minimal Art. Quest’ultima, d’altronde, volle andare oltre i concetti della Pop art azzerando del tutto ogni impegno dell’artista a livello estetico. Ma in Europa il linguaggio Pop di fatto sopravvisse in molti artisti fino al biennio 1978-79, con il cosiddetto “ritorno all’ordine” in pittura, coincidente con la fine delle proteste del Sessantotto.
Atto III: Indagine
Indagando ancora più a fondo, si può scoprire che negli anni Novanta uscì, tra i vari documenti desegretati della CIA, il rapporto di una riunione con il Dipartimento della cultura americana e con Leo Castelli. Negli anni Cinquanta, la CIA (e molti politici) aveva segretamente favorito l’arte antifigurativa come l’Astrattismo e l’Espressionismo Astratto unicamente per creare un’alternativa all’arte sovietica, il Realismo socialista, molto più radicato alla figurazione ottocentesca. Ma alla fine del decennio, quando era ormai chiara la posizione egemone della cultura e dell’economia statunitense in Occidente, si decise di puntare su una nuova arte. Fu così che nella sopracitata riunione venne inventata la Pop art: vennero spinti nei grandi circuiti gli artisti che erano stati pubblicitari e grafici, capaci di poter creare un linguaggio molto più appetibile al pubblico. Il risultato fu quello che noi oggi vediamo nei libri e nelle mostre: fumetti riprodotti in grande, serigrafie ripetute senza alcun messaggio, oggetti dipinti in enormi tele come se fossero divinità.
Gli artisti statunitensi Pop sicuramente svilupparono da soli questo linguaggio, venendo tutti dalla pubblicità e dai fumetti, ma a dargli spazio nelle gallerie fu Leo Castelli tra i primi. La Biennale del 1964 fu solo la consacrazione a livello internazionale di un movimento irrefrenabile.
C’è chi teorizzò che tra le motivazioni dietro al cambiò di rotta nell’arte americana vi era anche il fatto che gli artisti dell’Espressionismo astratto erano per lo più immigrati europei; invece, servivano artisti statunitensi per rappresentare la nuova potenza culturale.
È importante sottolineare come il rifiuto italiano degli ideali americani, iperconsumistici e capitalisti si andò a rafforzare con alcune importantissime mostre della neoavanguardia del secondo Novecento, dove si parlò molto dell’esigenza di un’arte rivoluzionaria, dello Stato borghese e conservatore e vi furono innumerevoli dibattiti e conferenze sull’arte, il teatro, il design.
All’interno di queste vetrine, la Pop art veniva richiamata unicamente per un ambito stilistico: gli artisti europei, a differenza degli americani, erano capaci di esprimere nelle loro opere un significato ed un impegno intellettuale assente nella controparte statunitense. Un esempio semplice potrebbe essere il confronto tra il Mao di Warhol e quello di Spadari: il primo lo dipinge aggiungendoli il rossetto, il secondo, nell'opera Cina (1977-78), lo inserisce in un collage dipinto che mostra le parate comuniste e il leader cinese durante una manifestazione.
Andy Warhol, Ritratto di Mao, 1972-73 |
Giangiacomo Spadari, Cina, 1977-78 |
Che la Pop art italiana non abbia mai visto un riconoscimento più ampio nei circuiti mainstream è un problema legato proprio a questi temi forti, in un’ambiente dove la maggioranza degli addetti ai lavori, in particolare dagli anni Ottanta, sono vicini ad un ambiente borghese ed elitario. Solo una parte degli artisti oggi ha avuto la fortuna di esporre in mostre nei grandi musei in maniera permanente, altri non hanno mai avuto molto di uscire dalle esposizioni temporanee, o le loro opere sono in piccoli musei o in magazzini.
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