Di Elena Di Ruvo, Eleonora Groppelli, Sara Lodi, Luca Martinelli, Federico Rossato, Alessandra Vita
Scrivere un articolo per il Giorno della Memoria non è una scelta semplice. Trattare di un argomento così delicato ti fa sentire piccolo, il peso è sempre troppo grande: che hanno da dire in merito a questo argomento dei giovani sulla ventina che non sia già stato scritto?
Ed ecco improvvisamente l'idea che ci è sembrata la più giusta per omaggiare a modo nostro a questa giornata: la memoria.
Ci siamo posti una domanda: come siamo venuti a conoscenza della Shoah e quando abbiamo capito davvero ciò che era accaduto? Abbiamo dunque attinto ai nostri ricordi per ragionare su vari problemi che pone la questione. Il metodo scolastico di spiegare la Shoah funziona? Come si può parlare di argomenti così crudi e dolorosi a un bambino? Ha senso farlo subito?
Di seguito, le esperienze di alcuni di noi.
Foto di @glind_art su Instagram |
Elena Di Ruvo:
«Ho saputo della giornata della memoria alle elementari/medie e la mia mente, a riguardo, è un po’ offuscata; ho però ben presente il trauma di me stessa, davanti al televisore a scuola, che guarda La vita è bella. Visto in quell’unica occasione e poi mai più, tale fu lo shock.
Ho un rapporto conflittuale col tema della Shoah: da un lato, mi incuriosisce documentarmi sulla testimonianza dei superstiti e sul loro messaggio ai giovani; dall’altro, non ho comunque il coraggio di parlarne. Ogniqualvolta si presenti l’occasione per farlo, una parte del mio cervello mi fa sentire a disagio: sento di avere una parte di colpa per ciò che è successo e riconosco l’assurdità di un simile pensiero, ma è un blocco mentale che mi porto da sempre. Probabilmente, la causa è proprio il trauma di quei film a tema che ci proponevano a scuola.
Durante il periodo delle medie visitai il campo di concentramento di Dachau, in Germania. Un’esperienza formativa e terribile allo stesso tempo: ricordo le stanze dei deportati, le docce a gas, i forni, il museo che conserva ancora parti di vestiario, scarpe, ciocche di capelli. Già all’epoca rimasi profondamente scossa; se ci ripenso adesso, mi viene un brivido. Col passare degli anni, ho sempre più la percezione che la giornata della memoria sia vista come una “propaganda”, che non rende davvero giustizia a ciò che l’olocausto fu nella realtà: si comunica il bisogno di parlare della Shoah ma non con la giusta attenzione, e per un giorno solo. È probabilmente una sensazione sbagliata, ma l’idea che vedo aleggiare è del tipo: “È la giornata della memoria? Mandiamo in onda Schindler’s List perché il programma lo richiede”. Non direi che sia l’approccio migliore: specialmente quando si tratta di dover trasmettere il tema alle nuove generazioni che, comprensibilmente, hanno più bisogno di essere istruite su quest’importante pezzo di storia. È una questione tuttora aperta, su cui si dovrebbe parlare indipendentemente dal giorno che le viene dedicato».
Eleonora Groppelli:
«Ho da sempre associato il 27 di gennaio ad una ricorrenza importante. Merito della scuola, che ogni anno preparava discorsi e assemblee a riguardo, fino a far sì che quel giorno si trasformasse in una settimana. Il termine più ripetuto, dalle maestre e in TV nei telegiornali era “per non dimenticare”. Devo ammettere però che fino ad un certo punto nella mia vita non avevo bene compreso il valore che quelle parole avevano. Iniziai ad attribuire il giusto peso a questa giornata quando, in prima media, la mia professoressa di italiano decise che dovevamo capire perché non si doveva “dimenticare” per davvero. È stato efficace, perché fu un momento che ricordo ancora oggi. Era metà settembre e qualcuno aveva chiesto perché ne parlassimo in quel preciso giorno. Ripensandoci oggi, la stessa domanda era la risposta. Capire che il “non dimenticare” doveva essere universale e non applicato solo al 27 gennaio dava, paradossalmente, più significato a questa giornata».
Sara Lodi:
«Alle superiori facevo religione; la mia insegnante si sforzava sempre di portare in classe argomenti di attualità su cui dibattere, perciò non mancava mai di parlare di Shoah quando giungeva la settimana della ricorrenza. Ricordo che era una tradizione guardare un film dedicato all’argomento, ma in particolare ne ricordo uno che si intitola Elle s’appelait Sarah, in italiano La chiave di Sara.
Siamo nel 1942 durante l’inizio dei rastrellamenti a Parigi. La famiglia ebrea Starzynski viene deportata, insieme a tante altre, nel Velodromo della città in attesa di essere inviata in un campo di lavoro. Sarah Starzynski riesce a nascondere il fratellino Michel dai nazisti, ma commette l’errore di chiuderlo a chiave in un armadio a muro, impedendogli di scappare e salvarsi. Quando Sarah tornerà da Michel troverà il suo cadavere, figura che preannuncia il suo destino.
In occasione di questa giornata della memoria voglio riflettere sul dolore che ha perseguitato Sarah per tutta la vita, perché per me è stato fondamentale per sentire vicina la Shoah: attraverso Sarah ho potuto proiettare un avvenimento storico atroce di portata mondiale nella mia dimensione personale e di introiettarlo mediante l’esperienza del dolore. Quando vidi la scena in cui Sarah si precipitava verso l’armadio, ormai disperata perché consapevole che avrebbe trovato Michel morto, sentii una fitta viva. Anche io ho una sorella più piccola e immedesimarmi in Sarah è venuto naturale. Quando da piccole giocavamo a nascondino e le dicevo di non muoversi e di non parlare, perché vince chi riesce a stare nascosto più a lungo, lei mi guardava sempre con occhi fiduciosi e annuiva, perché qualsiasi cosa le dicessi io era giusto. E aspettava paziente, come le raccomandavo. Mi domando come sarei sopravvissuta al senso di colpa di Sarah: la sua esperienza mi ha permesso di avvicinarmi concretamente alla sostanza tragica della Shoah».
Luca Martinelli:
«Di Auschwitz e della Shoah in generale sono venuto a sapere molto presto, credo intorno ai 6/7 anni. In casa si parlava senza censure della cosa, senza tuttavia risultare traumatico. Fu forse per questo approccio precoce che per anni ho vissuto la Shoah in maniera molto distaccata, ovunque se ne parlasse. A scuola in generale l’argomento mi stancava particolarmente: l’approccio meramente didattico all’argomento, la morbosa necessità di dare risposte ad inquietanti interrogativi ancora oggi mi stanca- per certi versi mi turba.
Passiamo quindi ai miei 16 anni: lì c’è stata una prima svolta. In un viaggio in Polonia con un amico decidemmo di passare per Auschwitz: più delle camere a gas, delle scritte, delle spiegazioni, mi colpì l’enorme spazio che occupano i campi. Per la prima volta veleggiò nella mia testa il dubbio di essere solo un sassolino scagliato dalla storia. Quando tornai, mi dedicai a una classica lettura: Se questo è un uomo di Primo Levi. In quel momento si unirono i dubbi col dolore, insieme a una dose di nichilismo adolescenziale che aggiungeva al tragico una mancanza di prospettiva al dramma. Ancora oggi quel nichilismo nel considerare la parentesi nazista mi condiziona: quale può essere la prospettiva di fronte alla strategica perpetrazione del genocidio? Esiste veramente un insegnamento che si può trarre da luoghi che hanno tolto ogni voce?
Ma l’interrogativo rimase, e proprio l’anno successivo scoprii Il figlio di Saul, il film di Laszlo Nemes. L’inesistenza della profondità di campo, la possibilità di intuire ma di non vedere quello che succedeva all’interno delle camere a gas, l’assoluta assenza di pornografia nella rappresentazione del dolore più estremo mi diedero un altro calcio verso l’abisso».
Federico Rossato:
«Spesso e volentieri il Giorno della Memoria si ritrova a dover affrontare un problema ulteriore al proprio oggetto cardine, ovvero l’atroce genocidio perpetrato dal Terzo Reich, e questo è l’idea che la memoria debba essere un’anima bella, riutilizzando un concetto hegeliano così come fece un professore del liceo a me estremamente caro. Ciò che ironicamente si dimentica, infatti, è che la Storia non è fatta di puri sentimenti mossi da teste d’angelo senza corpo, ma da persone che cadono, l’una dopo e a causa dell’altra, sul banco da macellaio della realtà, dove non esiste teoria che non vada farsi carne e sangue ed ossa. Il problema Spinoza di Yalom e Il pianista, sia come romanzo che nella controparte diretta da Polanski, raccontano di questo farsi della realtà non come pura costruzione ideale, ma come un impegno costante che si dà nella prassi della memoria, del superamento e della lotta a quelle derive totalitarie costantemente pronte a balzare alla giugulare della società civile, nascoste tra le labili cuciture di chi vede questo giorno come una ricorrenza anziché come la ripromessa, oggi come ieri ed anche domani, di volersi distinguere dai peggiori dei propri fratelli dicendo “No, io non sono come voi”. Questo è il cuore del Giorno della Memoria: una resistenza eterna, nella teoria e nella pratica».
Alessandra Vita:
«Non ricordo bene il momento preciso in cui sono venuta a sapere della Shoah. Nella mia famiglia si è sempre parlato della Seconda Guerra Mondiale, in quanto abbiamo avuto parenti dispersi in Russia, altri che hanno disertato e altri che hanno trascorso vario tempo nelle prigioni. Ricordo che da piccola per me Hitler era "il cattivo", l'incarnazione stessa del male. Alle elementari le mie maestre, Antonietta e Luisa, a cui dedico questo paragrafo, hanno saputo trattare l'argomento con estrema delicatezza seppur non addolcendo la pillola. La madre di una mia maestra aveva salvato delle persone ebree nascondendole nella sua casa. Dunque le mie maestre sono sempre riuscite a parlarmi dell'argomento portando anche le loro esperienze personali, facendoci capire l'orrore del periodo e rendendoci consapevoli senza tuttavia traumatizzarci. Anche delle medie ricordo un'esperienza positiva: spesso venivano delle persone sopravvissute alla Shoah a narrare la loro esperienza. Al liceo invece non ne parlava quasi nessun professore e, quelle poche volte che è stato fatto, l'argomento veniva trattato svogliatamente. Credo che ciò sia un vero peccato. So che la scuola italiana spesso non riesce a parlarne come si deve, a volte perché i professori stessi magari non hanno gli strumenti per farlo e pensano che basti smollare i bambini o i ragazzi davanti a un film per trattare l'argomento. Non credo che ciò sia effettivamente utile: è giusto parlare della Shoah anche ai più piccoli ma bisogna spiegargliela come si deve, altrimenti tutto viene svilito e diventa solo una fonte di malessere. Ci vorrebbero più insegnanti come Antonietta e Luisa».
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