Di Luca Martinelli
«Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenit della tua significazione»
(Vola alta, parola, cresci in profondità; Mario Luzi)
«Batto in Helvetica 'ste rime, io non cerco grazie»
(Soffio di lucidità; Claver Gold)
Se Mario Luzi si fosse trovato agli inizi della sua oltre settantennale carriera da poeta a pensare di doversi confrontare con un ambito come quello del linguaggio rap, presumibilmente avrebbe fatto uno dei suoi sorrisi ironici e lievemente beffardi. Sicuramente non avrebbe ritenuto possibile confrontare il suo rigore nei confronti della parola (e della Parola).
Eppure è in quel termine, in quella significazione, quel legame che sta tra significante e significato che si gioca il legame tra poesia e rap.
Foto di Antoine J. su Unsplash |
L’imporre un senso al verbo porta naturalmente a intensificare quello stesso verbo nel legame che sta tra verso e lettore, barra e ascoltatore. Come diceva Antonella Anedda in un breve video, la poesia permette all’uomo non di comprendere la realtà né tantomeno risolverla: inutile pensare perciò romanticamente che la poesia possa in qualche modo aiutarci nella selva dei tempi difficili che stiamo vivendo tutti. Eppure ci aiuta ad intensificare, appunto, la realtà: entrarne più a fondo, coglierne le viscere, ma soprattutto costringersi al sobbalzo (o venire piuttosto costretti al sobbalzo?) da una realtà che si fa sempre più afona.
È qui che entra in gioco il rap: espressione contemporanea (attribuiamo a Dj Kool Herk nell’agosto ’73 la nascita del rap), porta nelle sue forme a potenziare il rapporto con la realtà e/o con un immaginario. A differenza della poesia, il rap si serve naturalmente di un beat: si presta, nella meccanica dei 4/4, a essere ingabbiato, e al tentativo di fuga dai 4/4, come negli ultimi tempi provano a fare numerosi artisti appartenenti al sottogenere trap.
Eppure la stessa poesia è gabbia nelle forme (anche le più libere) del verso: come scrisse Thomas Eliott nelle sue Reflection on vers libre nell’arte non esiste libertà e anche il migliore dei versi liberi non è affatto libero. Con questa presa di posizione, Eliott si distanzia totalmente dalle avanguardie del futurismo italiano e del vorticismo inglese.
Anche qua troviamo una vicinanza tra linguaggio poetico e linguaggio rap, ovvero la necessità di farsi contagiare e liberarsi dalla voce dei padri: è l’angoscia dell’influenza, termine coniato da Harold Bloom nell’omonimo saggio e che è al centro del dibattito poetico anglosassone da anni.
Prendiamo un esempio: l’uso della metrica in Foglie d’erba di Walt Whitman viene ripreso pari pari da Allan Ginsberg in Kaddish. Eppure Allan Ginsberg si svincola dall’influenza di Whitman “drogando” la sua poesia, rendendola vicina alle partiture Bebop tanto amate dai poeti beat dell’epoca. Si è svincolato Ginsberg dell’angoscia dell’influenza? Ai critici letterari l’ardua sentenza.
Daniel Radcliffe nei panni di Allen Ginsberg in Giovani ribelli-Kill your darlings; Fonte: Notorious Pictures |
Il meccanismo non è dissimile dal rap: prendiamo due approcci al rap apparentemente diversi, quello di Kaos One e quello di Salmo. Nella parte iniziale della carriera Salmo riproduceva in maniera molto simile l’immaginario hardcore: successivamente c’è stato un netto distacco, un cambiamento. Si è emancipato il figlio dal padre? Ai critici musicali l’ardua sentenza.
Ma come si introduceva all’inizio dell’articolo, la grande possibilità della poesia e del rap è la parola.
Parola che vola alta e parola cha ha un potere: “Potere alla parola”, come diceva Frankie Hi Nrg nell’omonima canzone del ’93. Una parola che diviene potenza, che diventa una splendida libertà incatenata.
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