Don’t Look Up: una critica alla società odierna

Di Eleonora Groppelli 

Don’t Look Up è l’ultimo film diretto da Adam McKay, uscito in sala l’8 dicembre scorso e approdato su Netflix il giorno della Vigilia di Natale. Candidata al premio Oscar come miglior film, si tratta di una tragicommedia che rappresenta, in modo satirico ed estremamente critico, la piega che il futuro dell’umanità potrebbe prendere. Il ritmo delle scene è incalzante e il tono è leggero ma ha un sottotesto importante che merita una lettura approfondita.

Kate Dibiasky, giovane dottoranda in astronomia, individua l’esistenza di una cometa non ancora identificata. Il suo professore, il dottor Mindy, dopo aver effettuato alcuni calcoli, scopre che il corpo celeste si abbatterà sulla terra nel giro di circa sei mesi. I due, quindi, cercano invano di farsi ascoltare dalle autorità e di farsi spazio in un mondo ormai sordo e governato da superficialità.

Adam McKay nella sua carriera ha realizzato una vasta serie di commedie drammatiche, come La grande scommessa o Vice – L’uomo nell’ombra. Questi prodotti, nonostante da un lato siano caratterizzati da un tono satirico, dall’altro trattano argomenti complessi, non sempre adatti ad un pubblico omogeneo. Con Don’t Look Up, invece, McKay integra la classica atmosfera leggera e divertente con l’elemento critico e lascia da parte la demenzialità. Il risultato è una commedia che riesce a vertere l’attenzione di un vasto pubblico mainstream verso argomenti seri.

Per argomento serio si intende il grande parallelismo con la realtà di oggi. La cometa che sta per annientare le vite dei protagonisti, infatti, si può ricondurre, principalmente, all’emergenza climatica. Un problema che è stato ignorato troppo a lungo. Questo ci porta alla lettura chiave del film. Fisicamente sarà la cometa a distruggere il pianeta, ma la causa che ha permesso che questo accadesse è l’umanità stessa. Sono proprio i protagonisti, rappresentanti di diverse categorie della società, i veri carnefici. Il cast, colmo di premi oscar, è costituito da Leonardo Di Caprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett e ancora Jonah Hill, Timothee Chalamet, Mark Rylance e la popstar Ariana Grande. I personaggi che interpretano costituiscono tre gruppi attorno a cui si svolge la storia. La politica, guidata dalla presidente Jeanie Orlean, un Trump al femminile, guidata da un ego smisurato. L’informazione, rappresentata dallo show The Daily Rip, e dai suoi giornalisti Brie Evantee e Jack Bremmer, il cui motto è «keep it light and fun». Infine, l’opinione pubblica, che è così pesantemente invasa da ogni tipo di informazione che non sa distinguere più ciò che è reale da ciò che non lo è.

A questo proposito un argomento su cui il film induce a riflettere è l’importanza che abbiamo imparato a dare ai social network. Mezzi di disinformazione, attraverso cui tutti fanno passare la propria opinione come informazione certificata. Luoghi in cui sembra che commentare ogni parola, frase o gesto altrui sia un requisito senza il quale non si può passare. Attraverso questa retorica i social più che spazi virtuali di ritrovo si sono trasformati in divisori di pubblico. Una spartizione in quelli che sembrano essere due gruppi obbligatori: chi è d’accordo su un certo tema e chi non lo è. Spesso ci dimentichiamo che non tutto è opinabile. Ciò accade nella pellicola in quanto nessuno ascolta la scienza e cerca di storpiare le informazioni che essa da negando l’evidenza. Le conseguenze di questi comportamenti sono un allarme gigantesco per lo spettatore, che a questo punto del film dovrebbe aver intuito certe somiglianze. Da qui ci si può facilmente collegare al fatto che se una metà dell’informazione è polarizzata, l’altra metà è canalizzata direttamente di fronte agli occhi dei cittadini. A farlo sono le grandi multinazionali come Amazon, Google e Facebook, per citarne alcune. Nel film il rappresentante di questa realtà è Peter Isherwell, imprenditore e fondatore dell’azienda di alta tecnologia Bash. È più che evidente come queste aziende manipolino i loro compratori ascoltando le loro necessità e fornendogli momentanee soluzioni. Isherwell ritrae anche l’esuberanza dell’imprenditore miliardario che per soddisfare i suoi interessi economici mette in pericolo l’intera umanità. E lo fa sempre e rigorosamente senza avere conoscenze scientifiche.

Altrettanto degna di nota è la messa in scena di una mascolinità che McKay mette in discussione attraverso le figure di Kate e Randall. Vengono, infatti, messi a confronto due modelli. Da un lato Kate, colei che ha scoperto la cometa, decisa e tenace. Dall’altro Randall il suo accompagnatore, ansioso e un po’ codardo. Nonostante Kate sia una scienziata competente vediamo come le basta uscire dai canoni del modello femminile passivo, tipico del piccolo schermo, per far crollare la sua autorevolezza. Al suo posto, il sistema trascina al centro della scena Randall etichettandolo subito come l’eroe della situazione. È chiaro come la TV manipola l’intervento dei due scienziati trasformandolo in un teatrino ridicolo. McKay ritrae quella che pare essere una realtà distopica in cui le risate e un’ostentata leggerezza calpestano le urla d’allarme di una scienziata.

Concludendo sento di poter affermare che Don’t Look Up, oltre che un manifesto, sia uno strumento nelle mani degli spettatori. Ognuno, infatti, è libero di interpretare la cometa, di sostituirla con l’emergenza corrente che più desidera. Gli effetti che essa scatena si traducono facilmente nella realtà in cui viviamo e il finale del film è una carta bonus che ci smaterializza in un, non così ipotetico, futuro.

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