Perché "Brooklyn Nine-Nine" è una serie innovativa

Di Elena Di Ruvo

Ero stufa di vedere le solite trame poliziesche americane che ci propinano le serie di Netflix e colleghi: uomini forti e coerenti, donne stupende e casi contorti a occupare centinaia di episodi. Brooklyn Nine-Nine è la soluzione ideale a tutto questo.

Da un’idea di Dan Goor e Michael Schur, prodotta tra il 2013 e il 2021, la serie è stata distribuita su Netflix Italia a partire dal 2016, per un totale di otto stagioni. Nel fittizio distretto del 99º a New York, vediamo una squadra di poliziotti presi dai casi investigativi più disparati – spesso con interessanti colpi di scena – a cui si accompagnano sottotrame che sviluppano e approfondiscono il loro carattere. Il protagonista, Jack Peralta (Andy Samberg), è il classico poliziotto geniale ma infantile, fissato col suo film preferito, Die Hard, innamorato della collega Amy Santiago (Melissa Fumero) e migliore amico di Charles Boyle (Joe Lo Truglio). La squadra è molto legata, occupandosi insieme di diversi crimini – dal furto con scasso al traffico di droga, incendi, fino a semplici furti d’auto; più volte, alcune vecchie conoscenze criminali tornano durante le stagioni, creando un fil rouge tra un episodio e l’altro. Lo schema è piuttosto semplice, ma è ciò che la serie vuole mettere in luce a costituire il suo più grande potenziale.

Il macro elemento che mi ha fatto amare Brooklyn Nine-Nine riguarda il tema della rappresentazione, che passa su più livelli a partire da quello dell’autoironia: la serie, infatti, demolisce in maniera intelligente il cliché dei poliziotti seri e granitici, mostrandocene altri goffi e simpatici (insomma, più umani): il ruolo e la psicologia ben definiti aiutano ad empatizzare con ciascuno di loro. Persino le battute più pungenti non scadono mai nel volgare; la cosa mi ha sorpresa, trattandosi di un prodotto americano che parla di poliziotti e, quindi, facilmente incline ai luoghi comuni del caso, come può esserlo la discriminazione di due personaggi latinoamericani all’interno della serie.

Si tratta anche di una rappresentazione più propriamente fisica, che smaschera quella mascolinità tossica tanto abusata nei prodotti americani. Jake non è di certo un “manzo”; dall’altra parte, il personaggio palestrato di Terry Jeffords (Terry Crews) smonta l’immagine dell’uomo perfetto: il fatto che sia muscoloso non gli impedisce di essere un padre amorevole per le sue gemelle, un marito ansioso e un eccellente detective.

Ogni episodio riesce a far ridere, pur non tralasciando momenti di riflessione su importanti questioni di sensibilizzazione sociale. La serie, in effetti, è stata particolarmente lodata per il suo voler rappresentare personaggi di determinate “minoranze” etniche appartenenti alla comunità LGBTQ+, più volte tenuta in considerazione, manifestando tutte le difficoltà che ne conseguono. Non ci si vergogna a mostrare dal primo episodio il capitano di polizia Raymond Jacob Holt – interpretato da Andre Braugher – come un nero dichiaratamente gay, che in più occasioni ricorda ai sottoposti le discriminazioni subìte ai suoi tempi per ottenere il posto di lavoro. Non è un pretesto arrogante per mettere in mostra un personaggio omosessuale, ma piuttosto il coraggioso tentativo di normalizzare questo tabù, grazie alla comprensione e l’empatia di una squadra assolutamente solidale.

Dedicare interi episodi a parlare delle problematiche di certi personaggi fa capire quanto la produzione tenga a cuore l’argomento della comunità, vista qui come qualcosa di assolutamente normale e che, in nessun caso, dovrebbe creare problemi sul lavoro, tantomeno nella vita. È proprio per questo che la sfrontata naturalezza con cui il personaggio di Rosa Diaz (Stephanie Beatriz), durante la quinta stagione si apre alla squadra e alla famiglia dichiarandosi bisessuale, costituisce una svolta fondamentale nel ritrarre personaggi bi in prodotti, televisivi e non, che spesso e volentieri non ne parlano, liquidando la questione con semplici battute o, (peggio) una rappresentazione sbagliata.

In conclusione, l’enorme pregio di Brooklyn Nine-Nine è saper sfruttare la maschera della trama poliziesca per arrivare a smontare importanti stereotipi che ancora oggi la società si porta appresso. La serie offre il suo punto di vista sulle persone che più soffrono di discriminazione, ma sempre con leggerezza. Ironia non è sinonimo di superficialità, e in più occasioni vediamo questo concetto messo in pratica (ad esempio, i dubbi di Jake sugli arrestati e i loro diritti umani dopo un’esperienza in carcere nella quinta stagione). Viste le tematiche in gioco, sono convinta che Brooklyn Nine-Nine dovrebbe costituire un modello di riferimento per tanti altri prodotti che l’hanno preceduta e seguita, che parlino di poliziotti o meno.


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