"Dimmi cosa studi e ti dirò chi sei" disse Pietro Abelardo

Di Federico Rossato

Una figura spesso dimenticata dal grande pubblico del pensiero medievale occidentale è Pietro Abelardo. Quando si parla di autori del medioevo più a noi vicino, infatti, si pensa immediatamente ad Agostino d’Ippona, Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, Guglielmo di Ockham e pochi altri figuri, quasi sempre immaginati come ossessivi baciapile, ottenebrati da una Fede cieca in Dio. Oltre ad essere qualcosa di platealmente fasullo, basti vedere quanto scritto dallo stesso Guglielmo, non rende atto a questi dell’intelligenza che li contraddistingue. Abelardo non fa eccezione: uomo dalla vita che dir turbolenta sarebbe dir poco, estremamente intelligente, innovatore ed autore sagace. In particolare, oggi l’obiettivo sarebbe andare a presentare la sua distinzione tra veri logici e veri philosophi.

Edmund Blair Leighton, Abelard and his Pupil Heloise

Per Pietro Abelardo la legittimazione alla pretesa creaturale di parlare di Dio, ovvero quella in termini meno altisonanti chiamiamo “teologia”, e parlare con Dio, cioè la preghiera, deriva dalla logica. Questa certezza che a noi potrebbe parere quasi impossibile da conciliare con l’idea che abbiamo di medioevo è espressa nel prologo della Dialettica, una delle sue opere più celebri. 
Alcuni suoi avversi, convinti che non ci si possa occupare di nulla di estraneo alla Fede, accusano Abelardo di aver offeso la religione introducendo spregevoli argomentazioni dialettiche a sostegno e chiarificazione dei dogmi. Abelardo spiega, però, che la logica, in quanto scienza, ha a che fare con la verità tanto quanto la Fede, la quale è produttrice di scienza perché consente di conoscere la verità: due scienze, infatti, non possono essere contraddittorie, proprio come non possono esserlo due scienze che predichino entrambe predicati veri. La logica ed il pensiero dicono la verità, ma dal momento che la verità è una sola, la logica non può mai essere in contraddizione con la Rivelazione, perché verum cum vero consonat. A dispetto di quanti credono che gli autori della tradizione medievale non fossero attenti alle sottigliezze della riflessione filosofica, ovvero quel duellare in punta di fioretto. L’esito di Abelardo è che la verità della religione possa essere indagato attraverso gli strumenti della razionalità. Dunque, l’uso della dialettica in teologia è indispensabile, poiché permette di guidare ed incrementare un’altra scienza, perseguendo un fine comune che è l’acquisizione conoscitiva del vero e del bene, i quali avvicinano l’uomo a Dio. 

Dante e Beatrice contemplano l'Empireo, di Gustave Doré - Alighieri, Dante; Cary, Henry Francis (ed) (1892) "Canto XXXI" in The Divine Comedy by Dante, Illustrated, Complete, London, Paris & Melbourne: Cassell & Company Retrieved on 13 luglio 2009., Pubblico dominio

Inoltre, Abelardo è il primo autore a dare una giustificazione speculativa dell’etica, ossia a trattare questi argomenti in termini puramente razionali. Egli ha sentito, infatti, l’esigenza di fissare dei principi che assicurassero non soltanto l’adesione formale, ma anche sostanziale alla legge del Cristo. 
Principio fondamentale dell’etica, secondo Abelardo, è proprio il scito teipsum, ossia “conosci te stesso”. Infatti, peccare, per l’uomo, è porre in se stesso il fine delle azioni anziché in Dio. Dunque, per evitare il peccato è necessario conoscere la volontà della legge divina ed orientare in modo accorto la propria disposizione nei confronti di essa. 
Abelardo, in particolare nella sua Etica, distingue tra vizio e peccato. Il vizio è un’inclinazione naturale che deriva dalla complessità del corpo, ossia dal modo in cui esso è stato “costruito”. Al vizio siamo predisposti fin dalla nascita e questa inclinazione non è evidentemente una colpa, arrivando persino a dire che esserne privi non è un merito, riallacciandosi ad un ambito prettamente naturalistico. Il peccato, invece, è acconsentire con la volontà ad un’inclinazione cattiva. Esso sarebbe il frutto di una scelta e conseguentemente da ciò una colpa. Dio, infatti, in quanto onnipotente, non è tanto offeso dall’atto cattivo in sé, ma da ciò che è il non acconsentire al bene che lui ci ha indicato. 

Piccola curiosità: questa posizione di Abelardo è una palese critica al legalismo ebraico, poiché non è la pura azione, ma l’intenzione che la orienta a determinare la responsabilità dell’individuo. Esempio sciocco per rendere il punto: uccidere è in ogni caso un male, solo uccidere volontariamente è un peccato, mentre farlo involontariamente è qualcosa che capita. Allo stesso modo, anche solo avere l’intenzione di uccidere senza riuscire a portare a compimento l’omicidio è un peccato. 

Nikolaj Karazin, illustrazione di Delitto e Castigo

L’etica di Abelardo si basa, dunque, su due assunti fondamentali: 
1. Primato dell’intenzione morale: se il primato è dell’intenzione, la valutazione si basa sul motivo dell’azione, ossia sull’intenzione per cui si agisce. La valutazione morale di un’azione è legata all’intenzione di chi la compie, ma questo non vuol dire soggettività della morale: il Bene ed il Male non sono soggettivi, ma è soggettivo il consenso dell’azione.
2. Indifferenza morale delle azioni concrete: le azioni in sé non hanno rilievo morale, ma le azioni non sono indifferentemente buone o cattive. Oltre al giudizio morale, è necessario tenere in conto anche il giudizio giuridico: questi sono piani diversi del discorso, ma entrambi validi. Esempio per rendere meglio l’idea di quanto sostenga Abelardo: una madre che soffoca un proprio figlio per evitargli di morire ibernato in una tempesta di neve non commette peccato, ossia non agisce male moralmente, ma è perseguibile penalmente, poiché agisce male giuridicamente. 

In Pietro Abelardo, il primato dell’intenzione in campo morale è speculare al valore dell’intellectus in quello logico-conoscitivo: così come la valutabilità dell’azione è nell’intenzione di dirigersi secondo la legge di Dio, così la veridicità di un enunciato consiste nel suo in-tendere alla realtà oggettiva. Spingendo ancora un po’ più in là l’asticella, come sempre è imperfetta la conoscenza dell’uomo, così la bontà delle azioni sarà sempre inadeguata rispetto al Sommo Bene. Tuttavia, nessuna azione buona può non tendere al Bene, così come nessuna comprensione di veritas può non orientarsi verso l’unica e assoluta verità in sé, ovvero la conoscenza del Logos primordiale, per gli amici la Parola di Dio. Conseguentemente, i veri logici sono sempre filosofi e teologi, dunque i veri logici ed i veri philosophi sono i veri cristiani, seguaci del Logos.
La logica è stata autorizzata a farsi indagatrice della Bibbia, le cui parole simboleggiano la relazione che sussiste tra la cosa conosciuta e la rappresentazione che il soggetto è capace di rielaborare internamente. C’è un “ma”, ovvero che dato l’oggetto, talmente perfetto da essere estraneo alle capacità umane di comprendere, questa rappresentazione avverrà mediante il ricorso a metafore e similitudini (per coloro che non avessero cuore di stare troppo dietro alla verbosità degli autori medievali, una cosa simile può essere ritrovata in Wittgenstein con il concetto di “somiglianze di famiglia”), le quali sono signa della res loro corrispondente. Questo crea un sovrapporsi ed un complicarsi di significati scritturali, i quali si dovranno sciogliere attraverso l’acquisizione di una solida tecnica ermeneutica, ovvero quello studio che va ad indagare costantemente i testi, alla ricerca del significato nascosto tra le pieghe delle parole. 

Ludwig Wittgenstein nel 1930, di Moritz Nähr - Austrian National Library, Pubblico dominio

Abelardo elabora la teorizzazione e l’applicazione di questo metodo nel Sic et non, una raccolta di sententiae volta ad evidenziare le contraddizioni dei Padri della Chiesa, cercando di superarle con un nuovo modo che teorizza: 
- l’esame filologico della correttezza ed autenticità dei testi discordanti;
- presa in considerazione della possibile evoluzione del pensiero autoriale;
- variazione delle espressioni a seconda del genere letterario e del pubblico al quale l’opera è destinata;
- ricerca di eventuali equivocità e polisemie nel linguaggio umano e teologico;
- se non emergesse nessun indizio utile, dato che le interpretazioni dei Padri della Chiesa sono anch’esse tentativi imperfetti sebbene meritevoli di rispetto, è necessario introdurre la ratio dialettica che, in quanto oggettiva, tenderà alla più rigorosa manifestazione della verità.

Tutto questo discorso a dimostrazione del fatto che alla base di una concezione moderna della ricerca nelle scienze strettamente umanistiche ci siano quegli autori medievali che abbiniamo tanto frequentemente alla cieca obbedienza alla volontà del Santo Padre. La ricchezza dell’età medievale è incommensurabile e questo esempio, quello di Pietro Abelardo, non è che un piccolo passo per provare a rendere la profondità di pensiero di un’epoca vissuta all’insegna della Ragione. Per avere un’idea di quanto torbido e tempestoso e affascinante e attraente possa essere il Medioevo, si consiglia di recuperare l’Epistolario tra Abelardo ed Eloisa, dove amore, tradimenti, intrighi, riflessioni filosofiche e colpi di scena rendono l’interezza dello spirito di un’epoca. 

Abelardo ed Eloisa in una miniatura

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