Quattro chiacchiere sotto la torre di Babele

Di Federico Rossato

Pieter Bruegel il vecchio, Torre di Babele, 1563, olio su tavola,  114×155 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna

La filosofia del linguaggio è una di quelle branche della riflessione filosofica che ha sempre goduto, consciamente o meno, di una straordinaria attenzione. Vuoi per motivi strettamente politici o per sofisticate discussioni intorno agli universali, il linguaggio ha sempre avuto un posto centrale all’interno della riflessione intellettuale. In particolare, l’obiettivo di oggi sarebbe trarre una linea generale della riflessione linguistica all’interno del medioevo occidentale latino, tralasciando quindi l’intrigante universo orientale (N.d.C. consiglio di lettura come introduzione allo studio semiotico orientale: L’impero dei segni di Roland Barthes, edito in Italia dalla Piccola Biblioteca Einaudi), per fornire un quadro generale che vada oltre ai medievali come grotteschi cavernicoli che inneggiano ai veteres mores, allo smoking per i musicisti ed i Babbi Natale senza tutù.

Riprendendo il testo sacro per eccellenza del nostro Occidente, la Bibbia, ci vengono presentati due differenti tipi di racconti della creazione. Il primo, Genesi 1, racconta dei famosi sette giorni della creazione canonica. Il secondo, invece, ci riporta all’albero del Bene e del Male, spiegando come possa essere l’uomo malvagio nonostante Dio abbia creato una cosa buona. Dio, infatti, avrebbe creato il mondo sì simile a lui (solo un pelo meno perfetto), ma l’uomo l’ha rovinato attraverso la propria hybris. Perché ci servono questi due passaggi della Genesi? Essenzialmente per cogliere il significato dell’episodio della torre di Babele all’interno di Genesi 11. Gli uomini, infatti, avrebbero costruito una torre troppo alta, reificando il loro peccato di superbia, e Dio, per punirli, li fece parlare ognuno una lingua diversa.

Filastrio di Brescia, autore medievale del secolo IV d.C., spiega l’impossibilità che essi parlassero un’unica lingua prima di questa punizione, conseguentemente la condanna non starebbe nella moltiplicazione dei linguaggi, ma nella loro incomprensione, nonostante prima si comprendessero perfettamente perché tutte figlie di un’unica matrice. Piccola curiosità: Filastrio pone questa credenza al centoquattresimo posto nel suo personalissimo elenco di eresie. 
Con l’avvento dello Spirito Santo, nel giorno della Pentecoste, gli uomini tornarono finalmente a comprendere le loro parole: tutti gli apostoli, infatti, parlavano aramaico, ma coloro i quali andavano ad ascoltarli li sentivano parlare nella loro propria lingua, permettendo di portare ovunque nel mondo il messaggio della Fede senza alcun tipo di fatica. Questo poiché, in maniera abbastanza intuitiva, il messaggio di Dio è ovviamente comprensibile a tutti.

Marko Ivan Rupnik, Pentecoste, Ascensione, 1996-99, mosaico, Parete della divinizzazione dell'uomo, Cappella Redemptoris Mater, Città del Vaticano

I medievali aspiravano, dunque, ad un’unità nel linguaggio in quanto questa rifletteva l’unico ordine impartito da Dio. Per i medievali, quindi, il linguaggio è il riflesso dell’ordine della realtà attraverso le parole. Conseguentemente da ciò, questo dev’essere neutro e comprensibile da tutti. 
A questo proposito, v’è una leggenda molto interessante che riguarda la tradizione della Bibbia in greco. Long story short: la Bibbia è stata scritta in ebraico, ma quando venne a crollare il regno di Israele, allora essa andò a necessitare una traduzione in greco per continuare a sopravvivere. Questa è detta la “Traduzione dei Settanta”, poiché s’è creduto che settantadue traduttori si fossero chiusi in una stanza a tradurre la Bibbia, producendo miracolosamente settantadue traduzioni esattamente identiche grazie all’intervento dello Spirito Santo. Nel mondo latino si diffuse, invece, la vulgata, la cui attendibilità era concessa dall’autorevolezza di un grande traduttore come Sofronio Eusebio Girolamo.

L’esigenza di una coesione linguistica si manifesta anche e soprattutto dallo sforzo degli intellettuali latini di studiare principi rigorosi alla base della grammatica, della dialettica e della retorica, andando oltre la naturale polisemia, al fine di un riflesso di corrispondenza tra le res conoscibili. Dev’esserci armonia tra l’ordo rerum (l’ordine delle cose), l’ordo idearum (l’ordine delle idee) e l’ordo verborum (l’ordine delle parole): la realtà è ordinata in quanto frutto di un disegno intelligente, per la gioia di Aziraphale di Good Omens, ed il linguaggio è espressione di questa realtà. Il linguaggio, infatti, riflette la struttura della realtà e le parole sono il segno più naturale che conduce l’intelligenza alla comprensione di questa realtà.

Non è una casualità che il medioevo sia un vasetto di miele per quella golosa della riflessione semiotica, ovvero quell’ambito di ricerca che studia i segni: tutto è segno, poiché è posto da Dio in base all’idea che egli ha nella sua mente, dunque tutto è segno di Dio. Simbolo di questo profondo interesse del pensiero medievale è il carme che Alcuino di York, scrive a Carlo Magno per dedicargli una traduzione latina delle Categorie di Aristotele: «Questo libriccino racchiude in sé le dieci parole della natura delle cose, parole che a loro volta racchiudono in sé, per uno stupendo ed ordinato potere, tutto ciò che potrà mai venire in contatto con i nostri sensi. Colui che legge lodi l’ingegno ammirevole degli antichi maestri e si applichi a esercitare il proprio nello studio di queste cose, onorando in questo modo, con degni valori, il limitato tempo della sua vita. Questo scritto piacque al maestro Agostino trasporlo in lingua latina prelevandolo dai tesori dei Greci: a te ora, o grande re, seguace della sapienza e suo amante, che ti diletti di questo genere di doni, io lo trasmetto per la tua lettura».

Raffaello Sanzio, Incoronazione di Carlo Magno, 1516-17, affresco, 500×670 cm, Stanza dell'Incendio di Borgo, Musei Vaticani, Città del Vaticano

Le parole sono signa, conformemente alla definizione che Agostino d’Ippona dà di signum: una cosa che, considerata a prescindere dalla dimensione corporea con la quale si presenta ai sensi, introduce nel pensiero qualcosa di altro e di diverso, che è da esse stessa suggerito.

Questa definizione di signum si applica in prima istanza ai sacramenti: gli uomini medievali credono nei sacramenti poiché questi sono il segno efficace dell’azione delle grazie, di un intervento soprannaturale di Dio, di un Dio che fa quello che dice di fare e che agisce nel mondo. La loro realtà materiale è, dunque, finalizzata ad evidenziare al credente la presenza di realtà spirituali nascoste. Questa concezione si applica per estensione anche al linguaggio e alla comunicazione: parlare è una forma di insegnamento, il quale permette di condividere l’apparire della verità. Infatti, parlare di Dio è, in realtà, un parlare con Dio, conseguentemente una strada per conoscere il Vero nella misura in cui esso ci è concesso: i signa di Dio sono, utilizzando un concetto anacronistico, le categorie trascendentali attraverso cui si dà l’esperienza. Parlare e comprendere il significato delle parole sono gli
strumenti più diretti per accostarsi alle regole eterne che governano la realtà.

Tuttavia, signa di Dio non sono solo le parole, ma tutte le opere della sua creazione, in accordo con il rispetto della “dottrina di Dio” secondo la quale egli avrebbe impartito un insegnamento agli uomini parlando loro mediante i segni disseminati nella natura e mediante le parole con cui ha scritto la Rivelazione. Tutte le creature, infatti, sono immagine di qualcosa, e tra queste l’uomo è il signum più significante di tutto il creato.
L’uomo è signum di Dio in quanto è stato creato a sua immagine e somiglianza. Dunque, l’interesse per la semantica delle parole si estende a quello per la semantica delle res-immagini, ossia a quella “filosofia del bello” (la quale sarebbe divenuta in età moderna l’estetica, ovvero una chimera con due anime, ovvero la filosofia dell’arte e la filosofia del gusto), dal momento che ogni creatura è come una parola che rimanda a qualcosa di superiore ed è come un’immagine che rappresenta qualcosa di eterno, cui corrisponde il suo essere particolare. Dunque, la verità delle forme divine è da ricercarsi nelle bellezze particolari, poiché il Bello diventa strumento per raggiungere il Sommo Vero ed il Sommo Bene. Per i medievali, la bellezza è compiutezza ed organicità, dal momento che la realtà è governata da leggi di bellezza, in linguaggio tecnico le pulchritudinis leges, imposte da Dio.

Infatti, se la verità e la vita del corpo sono nell’anima, la verità e la vita dell’anima sono in Dio, il quale parla attraverso segni disseminati nella propria creazione, riconducendo l’esteriorità del molteplice a forme perfette ed unitarie. Dunque, l’uomo sarà tanto più artista quanto più riuscirà ad imitare non la corporeità dell’oggetto, ma le leggi stabili dell’universo a cui quello stesso oggetto appartiene ed il soggetto non sarà in grado di giudicare il Bello o il Brutto se non avrà recuperato dentro di sé le leggi della bellezza. Conseguentemente da ciò, secondo l’estetica medievale il mondo è bello perché Dio l’ha fatto come cosa buona ed è incarnazione del principio del kalòs kai agathòs, ovvero della coincidenza tra Bello e virtù. Il mondo è bello perché c’è un ordine gerarchico: ogni cosa è al suo livello, proprio come Dio l’ha pensata. 
Dunque, come scrive Agostino, saranno colpiti da una grande bellezza, per la gioia di Paolo Sorrentino e Jep Gambardella, coloro i quali comprendono autenticamente le parole del Prologo di Giovanni sul Verbo: bello è il Verbo, bello è Dio che lo concepisce e lo annuncia, bello è il suo incarnarsi nelle forme del creato. Ogni cosa, nelle sue singolarità e nella sua totalità, si conforma al Verbo, un’unica legge dominante che va colta sia nelle parole che nelle cose, poiché tutto ciò che è creato esprime il valore della volontà divina.

Foto di Gianni Fiorito

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