La Cena: nevrosi e ipocrisie di una giovane Italia

Di Silvia Strambi

Foto di Federica Benini

Il 23 aprile è andato in scena al Teatro Ridotto di Bologna La Cena, spettacolo di debutto del Collettivo Hospites, che presenta una drammaturgia collettiva coordinata dalla regia di Eduardo Landim. I membri della compagnia sono anche gli autori di tutte le canzoni all'interno dello spettacolo.
Ambientata nell'Italia odierna, come da titolo racconta di una cena tenuta da cinque ragazzi nella casa di una di loro, Rossella (Chiara Comis). Questa ha una notizia importante da dare ai propri amici, Diego (Leonardo Balestra), Ludovica (Laura Astarita), Lucrezia (Marta Cellamare) e suo marito Enrico (Roberto Giani). La notizia, però, arriverà solo a conclusione della serata. Infatti, quella che doveva essere un'occasione gioiosa diventa un ricettacolo di nevrosi pronte ad esplodere.

Lo spettacolo si apre preparando quello che sarà il tono di tutta la rappresentazione. I cinque protagonisti parlano tutti con un tono di voce più acuto del normale, ognuno è dotato del proprio set di espressioni colloquiali e di intercalari che vengono ripetuti fino allo sfinimento nel corso dello spettacolo. Ogni nuovo arrivo viene accolto da uno sprecarsi di gridoline festanti e di saluti "a distanza". Ma a questa apparente cordialità si accompagnano le prime crepe: gli omaggi portati dagli ospiti vengono lasciati cadere dalla padrona sul pavimento, Lucrezia chiede ossessivamente il rispetto delle norme anti COVID, Ludovica afferma di aver impiegato quattro ore per arrivare.
I discorsi sono infarciti di luoghi comuni ed espressioni generaliste: i migranti si lamentano della mancanza di WiFi nelle strutture che li ospitano, l'INPS è troppo lenta, la stazione vicino casa troppo malfamata... all'affermazione di Diego che "non siamo più abituati al vero contatto" tutti concordano ma, allo stesso tempo, si mettono in pose plastiche, fotografiche, in attesa del prossimo selfie di gruppo. 
Insomma, tutto è costruito, tutto passa attraverso codici familiari ma esasperati, in un'atmosfera che ricorda il teatro dell'assurdo.

Foto di Federica Benini

Progressivamente, la cena si trasforma in un'occasione per invettive feroci, con insulti, allusioni sessuali e improperi a non finire. Tutti i personaggi, all'inizio (apparentemente) pacati, esplodono in una regressione animalesca che si accompagna al "disfarsi" della lingua italiana: ognuno degli attori, infatti, comincia ad esprimersi nel proprio dialetto d'origine. Il culmine di questa regressione è una supercazzola a tema religioso recitata da Roberto Giani, il quale dà vita ad uno dei momenti più memorabili dello spettacolo se non altro per la quantità di volgarità che riesce a sciorinare in meno di un minuto.

Foto di Federica Benini

Questo momento è anche una delle più chiare dimostrazioni della grande capacità di tutti gli attori. Infatti, lo spettacolo richiede un enorme coordinamento nei movimenti, visto che non solo, come già detto, gli attori si muovono assumendo pose plastiche, "da quadro", secondo tempi dilatati in lentezza o in velocità, ma anche perché, soprattutto verso il finale, è necessario che nel caos collettivo gli spostamenti siano calcolati al millimetro per evitare lo scontro. Non per niente, il Collettivo ha lavorato sull'opera per tre anni. 
È inoltre evidente lo sforzo fisico richiesto: gli attori si spostano nello spazio frettolosamente, compiono azioni particolarmente complesse, tutto ciò continuando a mantenere un'alta energia durante l'intera ora di spettacolo.
Ultima nota sugli attori: particolarmente impressionante anche il controllo della voce. Infatti, come già detto nella prima parte tutti assumono un tono particolarmente acuto, in ottemperanza con l'allegria simulata. Tuttavia, nel corso dello spettacolo all'esplosione della volgarità generale si accompagna anche un incupirsi delle voci. L'effetto è particolarmente riuscito per l'attrice Chiara Comis, la padrona di casa il cui passaggio da carinerie a imprecazioni è particolarmente evidente, visto che incomincia lo spettacolo parlando in un tono definibile "sopranile".

Foto di Federica Benini

Il dialetto, però, non è soltanto la lingua dell'abbruttimento dei personaggi. È anche la lingua che accompagna una serie di "a parte" che si verificano nel corso dello spettacolo, dei momenti di quiete in cui tutto si interrompe e i personaggi sono liberi di esprimere il loro vero sentire solo a noi spettatori. 
Tuttavia, gli a parte sono anche gli elementi più deboli dello spettacolo: pur dando ai singoli attori la possibilità di brillare con materiali più drammatici, rompono il ritmo forsennato della vicenda, dando un effetto di whiplash. Inoltre, alcuni non risultano del tutto comprensibili in relazione ai personaggi e a ciò che sappiamo su di loro: Marta Cellamare si isola per fare un discorso sul mare, ma è difficile capire come questo sia legato al personaggio di Lucrezia in particolare. 

Ugualmente, alcune scelte registiche, non sempre riescono ad essere ben traslate nel momento in cui vengono comunicate al pubblico. Un esempio è quello del canto finale, intonato da Chiara Comis, in lingua cimbra, una parlata arcaica diffusa in Veneto e Trentino. La scelta di assumere un simile idioma per chiudere l'intero spettacolo ha certamente un legame forte con le origini dell'attrice, ma all'uscita dal teatro pochi spettatori, privi di legami col cast, sembrano aver capito di quale lingua si trattasse. 
Nonostante ciò, il lavoro compiuto nella costruzione del testo è evidentemente immenso e degno di lode, visto che scava nel vissuto dei suoi partecipanti.

Un'ultima critica che mi sento di fare al testo è l'idea di rappresentare la giovane Italia prendendo però come riferimenti testuali una serie di stereotipi e luoghi comuni legati più alla generazione dei nostri padri che non alla nostra. Ugualmente, c'è poco interesse nell'indagare i motivi sociali che potrebbero nascondersi dietro questa crisi che attanaglia i protagonisti. Forse, però, l'idea di base non è quella di porci davanti ad un'indagine, ma di restituirci alla più nuda e cruda dimensione di spettatori, osservatori attraverso il buco della serratura di un microcosmo di giovane umanità.

Foto di Federica Benini

In ultima analisi, La Cena è uno spettacolo estremamente promettente, che dimostra che il Collettivo Hospites ha dalla sua tutto ciò che rende una compagnia grande: degli attori non solo bravi a recitare ma anche capaci di contribuire al testo con i loro imput, idee interessanti da comunicare e un regista abile nello sfruttare i suoi mezzi. Soprattutto, abilità nel fare gran teatro con solo un tavolo, delle sedie, un po' di Amuchina, una bottiglia di vino (da aprire 30 minuti prima) e cinque giovani in balia dei propri demoni.

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