Recensione di "When the rain stops falling" al Teatro Stabile di Torino

Di Federico Rossato

Recensire uno spettacolo è abbastanza complesso. Non tanto per misteriosi impedimenti metafisici e nemmeno per impervi percorsi di formazione inaccessibili ai più. La ragione dietro la problematicità di passare al bisturi dell’analisi uno spettacolo è la schizofrenia di riportare un’opera in divenire, raramente replicata e replicabile identica a se stessa, come quadro statico entro cui potersi muovere agevolmente. L’immagine ferma, infatti, è estremamente funzionale per uno studio dell’opera, così come è facile vedere il mare e chiamarlo tale. Il problema sorge quando il mare non lo vediamo da fuori, ovvero non possiamo lavorare su immagini statiche, ma siamo proiettati al suo interno, un po’ come i famosi pesciolini di David Foster-Wallace. Questo non è né il luogo, né il momento per mettersi a discutere della possibilità d’analisi di uno spettacolo che sia nell’esperienza come un divenire e non come un’opera intera sempre identica a se stessa, ma è importante comunque rimarcare la problematicità della questione sia per onestà intellettuale (poiché sarebbe criminale non riconoscere un problema metodologico in seno alla trattazione) quanto per rispetto verso lo spettacolo, il quale meriterebbe più di quanto possa esprimere un’analisi limitata e, forse, limitante.

Foto di Sveva Bellucci

When the rain stops falling, diretto da Lisa Ferlazzo Natoli ed andato in scena al teatro Carignano del circuito dello Stabile di Torino dal 19 al 24 aprile, è uno spettacolo che meriterebbe molto più di una recensione che voglia indagarne il senso, ove per “senso” s’intende una coerenza strutturale dell’opera. Questo non perché sarebbe sciocco studiare quanto abbia da raccontare a noi spettatori attraverso la sua messa in scena (argomento estremamente fecondo e ricco di spunti di riflessione), bensì perché significherebbe limitarsi a porgli un complimento essenzialmente vuoto, ovvero quello di prodotto sensato o meno. Si rende necessario trovare uno sbocco per parlarne in maniera che ecceda il giudizio di sensatezza ed anche il riprovevole istinto di giudizio dell’esperienza, manifesto di una pigrizia intellettuale, aborrendo anche, se non soprattutto, la prospettiva persino più terrificante di un giudizio intorno alla stilizzazione ideale dell’esperienza. Serve, in poche parole, rendere a Cesare ciò che è di Cesare, ovvero tentare di spiegare a terzi il perché When the rain stops falling meriti più di quanto una recensione possa esprimere.

Long story short: lo spettacolo verte intorno ai drammi famigliari di due famiglie, gli York (N.d.C. Cognome meraviglioso per gli amanti del teatro, sicuramente già ritornati mentalmente a Shakespeare ed i suoi drammi storici: come dimenticare che «Ora l'inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York»?) e i Law, attraverso quattro generazioni. 

Foto di Sveva Bellucci

Tolstoj si manifesta, ancora una volta, profeta attraverso quel celebre incipit di Anna Karenina, ove sosteneva che «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». I drammi famigliari hanno sempre il loro fascino e ciò è evidente dalla storia della letteratura: da I Buddenbrook di Thomas Mann a Le correzioni di Franzen passando per I fratelli Karamazov di Dostoevskij, sarebbe innegabile non percepirne l’eco all’interno dello spettacolo scritto da Andrew Bovell. Compito dello spettatore sarà seguire questi drammi alla ricerca del sottile filo che regge l’interezza della narrazione, ovvero la possibilità di un amore che vada sanando quell’incomunicabilità che dilania i rapporti tra gli uomini, resi incapaci di cogliersi nelle loro intenzioni linguistiche più proprie dal crollo della torre di Babele. 

Siamo dinanzi ad una trattazione intorno ai temi del tempo e della Storia. Con "Storia" intendiamo la "storia universale", ovvero l'insieme di tutti gli avvenimenti e generale andamento degli eventi, e non una semplice narrazione contingente di un qualcuno. Per rendere meglio il concetto si pensi a The dreamers di Bertolucci, ove l’intento non è di narrare tanto la storia di tre ragazzi alla presa con degli irrefrenabili ormoni, quanto porre in essere, almeno sul piano più superficiale d’interpretazione, il conflitto tra responsabilità storica singolare e collettiva.
Questa trattazione è di raro fascino, distante dalle tendenze puramente decostruzioniste sia d’inizio Novecento che di più recente memoria legata a Jacques Derrida, cercando piuttosto di porsi come rappresentazione di una forma di nichilismo attivo, ovvero di piena consapevolezza che il cielo sia vuoto, Dio sia morto, Dio resti morto e che noi lo abbiamo ucciso, e tutto ciò che rimanga sia una massa di nuvole pronte a scaricare piogge torrenziali di catastrofi non dissimili da quelle di rane in Magnolia, ma che nonostante ciò sia possibile comunque esercitare la nostra facoltà di giudizio, ovvero di attribuzione di valore, per superare questo horror vacui esistenziale. 

Foto di Sveva Bellucci

Forse per deformazione professionale, ma quanto di più evidente all’occhio di chi dovesse avere almeno una basilare formazione filosofica, assistendo a When the rain stops falling, è la dimensione prettamente hegeliana del concetto di riconciliazione al proprio interno. Non siamo, infatti, davanti ad una narrazione che vuole defalcare i propri personaggi sotto l’egida di un nebuloso concetto di progresso, bensì è evidente un tentativo di riabbracciare l’interezza di questa storia lunga pressoché ottant’anni, ove nessuno è orpello, ma stazione necessaria di un movimento di ripresa della realtà.
Citando proprio la fine della Fenomenologia dello Spirito di Hegel: «La via che conduce alla meta – al sapere assoluto, cioè allo Spirito che si sa come Spirito – è il ricordo degli spiriti così come essi sono in se stessi e compiono l’organizzazione del loro regno. La loro conservazione, secondo il lato della loro esistenza libera che si manifesta nella forma dell’accidentalità, è la storia; secondo il lato della loro organizzazione concettuale, invece, tale conservazione è la scienza del sapere fenomenico; tutt’e due insieme, cioè la Storia compresa concettualmente, formano il ricordo e il Calvario dello Spirito assoluto, formano la realtà, la verità e la certezza del suo trono, senza il quale esso sarebbe la solitudine priva di vita. Soltanto dal calice di questo regno degli spiriti spumeggia fino a lui la sua infinità». 
Ovviamente lo spettacolo non si pone in questi termini così altisonanti, ma è evidente l’eredità hegeliana di un concetto di riconciliazione come unità del reale. Messa in termini meno prettamente filosofici, questa forma di riconciliazione è l’unico strumento utile per porre un limite, un argine, un ombrello, una nave al diluvio che si sta sfogando su coloro che annaspano sotto le nuvole e tra gli eventi che cercando di soffocarli tra le loro spire. 

Foto di Sveva Bellucci

In definitiva, sarebbe consigliabile andare ad assistere a When the rain stops falling? Credo sia abbastanza evidente la risposta, almeno stando a quanto scritto precedentemente. La visione non è solo consigliata, ma raccomandata ed auspicata. Se è vero che non c’è prodotto umano che sia propriamente balsamo per l’anima, essendo il piacere un sottoprodotto del processo che ci porta ad esperire un qualcosa, bisogna anche riconoscere che sarebbe criminale pensare di non poter riconoscere in questo spettacolo dei lineamenti per fare fronte a quelle umane miserie che fanno parte della nostra presenza su questo sasso bagnato sperso nell’immensità agghiacciante dell’universo, quasi facendo da eco alla frase, ahimè, più famosa de Il corvo di Proyas, originariamente concepito da James O’Barr: «Non può piovere per sempre».

Foto di Sveva Bellucci

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