Il blues e la sua impronta sul cantautorato italiano

Di Claudia Carrai

Foto di Anthony Torres (@rebel_photo) su Unsplash

Quando parliamo di blues, più che ad un genere facciamo riferimento ad un vero e proprio idioma musicale che, sviluppatosi negli Stati Uniti d’America a partire dal tardo Ottocento, mantenne le proprie caratteristiche per tutto il Novecento e oltre, pur mostrando una notevole duttilità nel passaggio tra epoche e contesti diversi. 

I pregressi a livello musicale si inseriscono nel contesto coloniale già a partire dal Seicento, quando gli Africani veicolarono nel nuovo continente molti aspetti della cultura e delle tradizioni dei propri luoghi d’origine, tra cui delle particolari modalità di espressione musicale che iniziarono a prendere il nome di blues. Il termine, che originariamente indicava uno stato d’animo vicino alla malinconia e alla tristezza e difficilmente traducibile in italiano (in modo non dissimile dal concetto brasiliano di saudade), venne quindi accostato a quella componente musicale che era così fondamentale nella vita degli schiavi, una vita scandita proprio dal canto nei tre momenti del lavoro, della liturgia e del riposo: nacquero, da un lato, i famosi worksongs (canti di lavoro), quelle musiche corali che venivano improvvisate nelle piantagioni al fine di alleviare la fatica di un lavoro massacrante, dall’altro un canto di tipo religioso-spirituale che prese le forme degli spiritual e dei gospel

Foto di Giancarlo Belfiore

Dopo la fine della guerra di secessione (1865), liberi dalla costrizione della schiavitù, gli Afroamericani iniziarono a migrare in contesti urbani. Fu allora che i bluesmen, portandosi dietro un grosso bagaglio di canzoni popolari e le chitarre (poiché leggere e facili da trasportare, divennero lo strumento principale per accompagnare la voce), cominciarono a suonare in occasioni di ricorrenze e festività in varie città americane. 
Emerse così la necessità di una struttura armonica precisissima e fissa che fungesse da schema di riferimento per improvvisare nelle più svariate situazioni: la celebre twelve bar blues, cristallizzatasi a partire dal brano St. Louis Blues e ripresa nel corso del secolo anche all’interno di generi musicali diversi, come lo swing e il rock ‘n roll. Insieme a questa forma, a caratterizzare il blues è anche una precisa scala di riferimento, una scala difettiva, per certi aspetti affine alla pentatonica minore, ma con alcuni elementi ultra-caratterizzanti definiti “blue notes” (Do – Mib – Fa#/Solb – Sol – Sib – Do). Come affermò il poeta, critico musicale ed attivista politico statunitense LeRoi Jones: «Il nero come schiavo è una cosa, il nero come americano è un'altra. Ritengo che il blues ed il nero americano siano nati contemporaneamente».

Bessie Smith, foto di Carl Van Vechten

Accanto all’esempio paradigmatico di Robert Johnson, che accompagnandosi con la chitarra ha incarnato la figura del bluesman originale e, con brani come Cross Road Blues e Sweet Home Chicago, ha dato vita ad alcuni capisaldi della musica blues, non possiamo non menzionare Bessie Smith, ribattezzata “imperatrice del blues”, la cui voce, quasi tendente al graffio ma caratterizzata da incredibile eleganza, potenza ed espressività, fece da modello per molte cantanti successive del calibro di Janis Joplin. Me and my Gin rimane senza ombra di dubbio tra i più celebri esempi di compresenza di struttura blues canonica e un testo che racconta la struggente condizione di disagio ed emarginazione dei neri in America. 


Nel corso del Novecento il linguaggio-stile del blues afroamericano trova spazio in numerosi altri contesti spazio-temporali, variamente filtrato o trasformato ma sempre impiegato secondo necessità di tipo espressivo, oltre che stilistico e formale. Di particolare rilievo è il caso del cantautorato italiano, che ci fornisce molteplici esempi soprattutto all’interno di quel decennio cruciale per la canzone d’autore che va dal 1970 al 1980. 

Tra questi, Via Paolo Fabbri 43 di Francesco Guccini, la traccia che dà il titolo al settimo album del cantautore pavanese (1976). 
I brani che compongono il disco, uno dei decisivi nella parabola di Guccini, testimoniano un momento storico in cui il rapporto tra i cantautori e il loro pubblico si fa teso e difficile, dal momento che quest’ultimo fraintende il loro ruolo considerandoli «pifferai della rivoluzione», portatori delle rivendicazioni sociali della sinistra estrema ed extraparlamentare. Allontanandosi da questa linea di pensiero, Guccini aveva fatto uscire nel 1974 un disco interamente e fortemente intimista, Stanze di vita quotidiana, di cui il mensile Gong aveva pubblicato una feroce stroncatura firmata dal giovane critico Riccardo Bertoncelli. 
Di qui l’urgenza di un disco come Via Paolo Fabbri 43, in cui compare anche quella geniale invettiva che Guccini lancia contro tutto il sistema in cui si muove (incluso lo stesso Bertoncelli, di cui fa il nome), ossia L’Avvelenata, che in un certo senso fa da ponte per la traccia successiva: Via Paolo Fabbri 43

Con un titolo che estremizza la scelta intimistica riportando l’indirizzo di casa dell’autore a Bologna, il brano si pone, quanto a contenuti, quasi come una continuazione del precedente, ma presenta un chiaro impianto melodico-armonico blues, pur discostandosi dal modello standard delle dodici battute e dei tre accordi: con l’uso totale di cinque accordi, in ogni strofa avviene un passaggio alla tonalità minore che contraddistingue un momento di spaccatura all’interno del discorso, spesso evidenziato dall’avversativa “ma”. 
Ciò che risulta particolarmente significativo è che il modulo del blues viene qui impiegato per veicolare un messaggio che si lega all’origine dello stesso: l’intento del cantautore è quello di sottolineare la propria alterità e il proprio distacco rispetto a quel mondo a cui si rivolge, un mondo di «arguti intellettuali», «poeti, santi, taumaturghi e vati» (1), connotando il brano come il canto identitario di una piccola comunità costituita dai personaggi che popolano la sua casa, un universo opposto, semplice e quotidiano («Se fossi poeta, se fossi più bravo e più bello/ Avrei nastri e gale francesi per il tuo cappello/ Ma anche i miei eroi sono poveri, si chiedono troppi perché/ Già sbronzi al mattino mi svegliano urlando in via Fabbri 43» (2)). 

A offrire un secondo spunto di riflessione è un altro personaggio-chiave del cantautorato italiano, Fabrizio De André (sebbene egli non si riconoscesse affatto nel termine “cantautore”, ammettendo invece “trovatore” o “cantastorie”). 
Fabrizio De André (1981), disco noto a tutti come “L’indiano” per via della copertina (un dipinto di Frederic Remington che raffigura un nativo americano a cavallo) e scritto con la collaborazione del cantautore veronese Massimo Bubola, è incentrato su un costante parallelismo fra il popolo sardo e gli Indiani d’America, di cui si mettono in luce analogie e differenze a partire dalla colonizzazione, di cui entrambi furono vittime. 
The Outlier, Frederic Remington, olio su tela, 101x68 cm, The Brooklyn Museum, New York

Apre l’album Quello che non ho, brano che inizialmente propone i suoni di una vera caccia al cinghiale registrata in Sardegna e prosegue senza soluzione di continuità con un riff shuffle blues in Mi, che si manterrà per il resto della canzone ricreando il contesto di una cavalcata nelle infinite praterie del West. Qui l’impiego del blues, in chiave più moderna, rock e decisamente distante dal modello del twelve bar blues, è funzionale proprio ad intensificare quel senso di appartenenza, di coscienza identitaria e di alterità (in modo quindi non dissimile da Via Paolo Fabbri 43, di cui il brano condivide anche gli accordi, omettendone uno). Anche la coda della canzone, che manifesta la presenza di un modello d’ispirazione chiaro a livello timbrico-armonico, Atom Hearth Mother dei Pink Floyd, si propone di sonorizzare l’immagine di una prateria sconfinata percorsa dagli Indiani mediante accordi che simulino un aprirsi e un ampliarsi dello spazio. 

Non sorprende, in questo quadro, il ruolo imprescindibile di Napoli, città che già a partire dal 1943, con l’arrivo dei soldati americani, vive un fondamentale incontro con la musica degli Stati Uniti e inizia a svilupparne in diverse direzioni i vari filoni. 
Tra le figure centrali di tale fenomeno c’è, insieme a James Senese e ad Enzo Avitabile, Pino Daniele, che proprio per quanto riguarda la ricezione del blues è di enorme interesse. 

Fonte: ANSA

Nei suoi brani questo linguaggio si manifesta non solo a livello stilistico e musicale, in versione talvolta classica, talvolta rivisitata, ma anche mediante una commistione linguistica: Daniele inizia a scrivere sia in napoletano sia in inglese, fino a servirsi di entrambe le lingue anche nella medesima canzone, raggiungendo così un risultato fonetico assolutamente perfetto per intonare melodie blues (il napoletano, infatti, come l’inglese, ha molte parole con accentuazione tronca). 

È questo il caso di Ue man! (in Pino Daniele, 1979), in cui tale mescolanza linguistica, che certamente è funzionale alla resa di un dialogo tra un napoletano e un americano, ci permette però di ragionare su un ulteriore livello, quello dell’immedesimazione e dell’empatia totale di Pino Daniele con la realtà originaria del blues afroamericano. Fu lui stesso a dichiarare, in un’intervista del 1979, «oggi io cerco di unire la musica blues che ho assimilato nelle mie esperienze musicali con quelle che sono le radici culturali della mia terra, della musica napoletana, perché il blues in fin dei conti è la ribellione a questi continui soprusi da parte della gente che odia i neri, e possiamo dire che c’è una relazione tra i neri e noi (…) perché c’è ancora purtroppo questo razzismo nei confronti dei meridionali, c’è perché lo vivo e l’ho vissuto» (3).
Questo il significato del titolo del disco successivo, Nero a metà (1980), uno dei capolavori della sua discografia, sulla cui copertina compare lui stesso che porta in spalla una chitarra come fosse un’arma utile non a sparare ma a veicolare un messaggio, il suo essere per metà napoletano e per metà nero. 

Copertina di Nero a metà

Qui i brani che propongono il modulo blues sono soprattutto Nun me scoccià e A me me piace ‘o blues. Quest’ultimo risulta però molto singolare dal momento che non si configura come un blues classico né a livello strutturale né armonico, ma ci catapulta in quella dimensione mediante alcuni elementi melodici (la presenza, in ogni strofa, di due frasi musicali identiche ed una diversa) e il testo (il cantautore arriva addirittura a definire sé stesso come blues: «Pecché so’ blues e nun voglio cagnà» (4)), oltre naturalmente al titolo stesso. 

Il panorama della ricezione e della rielaborazione del blues all’interno del cantautorato italiano degli anni Settanta e Ottanta è certamente molto più ampio e non si esaurisce con questi nomi. Merita di essere menzionato, fra gli altri, il contributo assai rilevante del binomio Mogol-Battisti

Note:
(1) frammenti da Via Paolo Fabbri 43 di Francesco Guccini
(2) Come sopra
(3) Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=qwB2bsii0N0&ab_channel=PePlay 
(4) da A me me piace ‘o blues di Pino Daniele

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