Pieces of a Woman: ritratto di vite in frantumi

Di Elena Di Ruvo 

Questo articolo può contenere riferimenti e spoiler sul film.

Ci sono molti film e serie TV che affrontano il dramma familiare della perdita di un figlio; e a volte, questo dramma può fare da collante a una trama più estesa. Pieces of a Woman, al contrario, si riferisce e parte proprio da questo motivo: la perdita, fisica e psicologica. Basata in parte sull’esperienza vissuta da Kornél Mundruczó e Kata Wéber, rispettivamente regista e sceneggiatrice della pellicola, la storia si muove su due fronti: da un lato, sviscera la tragedia della morte, portando a galla gli incubi di personaggi frammentati. Dall’altro, apre la questione di responsabilità e condanna sociale. Attorno a questi argomenti orbitano altre micro tematiche che proverò ad analizzare in corso d’opera.


Sean (Shia LaBeouf) e Martha (Vanessa Kirby) sono una giovane coppia in attesa della loro prima figlia; Martha vuole partorire in casa, ma il travaglio è particolarmente sofferto e l’arrivo tardivo dell’ostetrica complica le cose. Il famoso piano sequenza iniziale di venti minuti, concorre a farci entrare nel vivo - e nel disagio - della situazione. La bambina nasce, ma l’ostetrica si accorge subito che qualcosa non va perché la piccola è cianotica. Così, davanti agli occhi sconvolti dei genitori, la bimba muore di lì a poco e l’ostetrica viene citata in giudizio per incapacità professionale e omicidio colposo.
Da qui in poi è tutto un susseguirsi di azioni e reazioni che ricadono, direttamente o meno, su elementi di una famiglia ormai a pezzi. Il tema della frammentazione è il fulcro della nostra storia, nonché principale motivo di interpretazione del titolo; una frammentazione che non permette a certi personaggi, più di altri, di ricomporre i cocci, a partire dalle relazioni personali. Il rapporto tra Sean e Martha, infatti, si incrina, spingendo il primo a consolarsi con un’amante e la seconda a chiudersi in un guscio sempre più duro e impenetrabile. È da qui che la telecamera comincia ad operare lo zoom su Martha: sulla sua solitudine, la sua psicologia e il modo in cui affronta (o no) il lutto. Le inquadrature sul volto, sul collo, le unghie mangiate e le piante secche, accompagnate da tempi esageratamente dilatati, tradiscono lo stato d’animo inquieto della donna, rivelatrice di un modo di fare - per paradosso, oserei dire quasi abulico - che non la apre a nessun tipo di confronto.


Un confronto ci sarebbe, ed è quello con l’ostetrica; ma si scontra con la testarda riluttanza di Martha a presentarsi in tribunale, per il timore represso di doversi esporre al giudizio, e al fantasma della condanna sociale, per la scelta infelice di partorire in casa. Altro elemento ricorrente che non viene mai davvero approfondito - poiché il fulcro del discorso verte tutto sul sentimento - sulla reazione di Martha a un simile shock, così come l’incapacità di rifarsi una vita (almeno, fin da subito). D’altra parte, non si assiste nemmeno a un vero e proprio scambio con l’ostetrica, altra vittima del sistema per un giudizio forse troppo affrettato, che non ha considerato l’errore di Martha di non chiamare subito i soccorsi. In questo modo, si rendono difficili i tentativi di ricucitura; questione che il film sottolinea in più punti tramite immagini immediate, partendo da quella del ponte: oltre a fare da trait d’union per i singoli “atti” della storia, si presta infatti alla classica interpretazione di un ponte per le relazioni umane, nella speranza che queste infine si riallaccino. 

Sean lavora alla costruzione di ponti, quindi sorge spontaneo pensare che sia lui il primo a voler ripristinare il rapporto con Martha; e in un certo senso ci prova, a modo suo… cosa che non trova riscontro positiva in lei, facendola solo allontanare di più. Entrambi tentano di andare avanti, ma le loro scelte intrecciate implicano inevitabilmente un’ulteriore lacerazione: la relazione con l’amante di lui, nonché cugina della compagna, collide con il freddo distacco di lei, che non trova supporto nemmeno nella madre Elizabeth (Ellen Burstyn).
Elemento importante, questo, che ci apre le porte a un terzo punto oltre ai due già sollevati: lo scontro generazionale. Come conseguenza alla scelta di partorire in casa, Martha è costretta a fare i conti con una spada di Damocle, nei confronti dell’ostetrica, che la pone davanti a un senso di responsabilità che la madre rimpiange di non averle inculcato e per cui, ora, sta pagando il prezzo. 


Elizabeth vorrebbe che la figlia testimoniasse per se stessa, per far capire a tutti come si sente; ma ancora una volta, l’orgoglio della donna le impedisce di capire le intenzioni della madre, rigettando l’argomento su una mera questione di soldi. È come se il confronto con la madre avesse aperto una fessura nel muro alzato da Martha, che solo ora butta fuori tutta la sua frustrazione, in uno scambio acceso e molto intenso; la rabbia, la foga, la disperazione, sono sentimenti condivisi da entrambe le donne ma per fini diversi, che per la mancanza di una sana comunicazione le rende incapaci di comprendersi: c’è sempre un elemento di scarto che impedisce alle due di venirsi incontro, ostacolando così la costruzione del famoso ponte.

Il momento in cui Martha realizza di doversi “dare una mossa” arriva per caso, mangiando una mela in metro. Le mele sono un altro simbolo ricorrente nel film, che rivela il rapporto intimo e tenero che la donna era riuscita ad instaurare con la figlia in quei pochi minuti che l’aveva vista. Comincerà a crescere dei semi di mela che germoglieranno, chiara immagine della sua rinascita; non tutti i semi, però, sono sani, a indicare che il viaggio verso la fine del tunnel è ancora lungo e faticoso. Il gesto di mangiare i frutti, inoltre, può significare la volontà, di Martha, di riappropriarsi della figlia, “assorbirla” per ritrovare una connessione con lei. Intento, questo, reso esplicito dalla frase pronunciata in tribunale sulla bambina che “profumava di mela”; o ancora, dallo stacco sul respiro affannato di Martha che ne fa sentire il battito (N.D.A.).


Insomma, Pieces of a Woman è sicuramente un film degno di essere visto: sia per le tematiche trattate che per il modo di rappresentarle, grazie al ricorso minimalista a strumenti e ambienti essenziali, silenzi e campi lunghi. 
Non da ultimo, il motivo principale di lode dalla critica: la capacità espressiva di un cast eccezionale. A cominciare dalla stessa Vanessa Kirby (peraltro, vincitrice della Coppa Volpi a Venezia proprio grazie a questo film): il suo muoversi lentamente, silenziosa per lunghissimi periodi, la rende il perfetto esempio di un personaggio senza identità, attorno a cui ruotano tutti gli altri. 

Il film si presta a una serie di interpretazioni che ne esaltano il valore, in risposta al voler porre in primo piano l’identità femminile, il disagio di una madre e l’isolamento di una donna a pezzi, in tutti i sensi; il tema dello spacco che fa da fil rouge; l’impotenza, il non vedere più niente per cui valga la pena andare avanti e che porta due generazioni al conflitto; l’angosciante sensazione di vuoto e ritrovamento misurata nella lunghezza della pellicola, che spinge a non vedere nulla e, allo stesso tempo, tutto.

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