Di Elena di Ruvo
Il fascino del vintage è sicuramente uno dei punti forti nella cinematografia moderna e contemporanea; quindi non deve stupire che ancora oggi, tra i generi più in voga, vada per la maggiore: basti pensare alle miriadi di citazioni e riferimenti in tantissimi film diventati cult.
Il vintage cinematografico piace perché evoca immagini sognanti, soffuse; ma anche d’impatto, nel bene e nel male. I film di Alfred Hitchcock sono cult memorabili del panorama vintage che molto di rado trattano temi “leggeri”. Il nostro soggetto non è da meno, oltre a compiere una cifra importante per un film forse troppo poco discusso: parliamo dei 90 anni da Venere Bionda (Blonde Venus), film del 1932 diretto da Josef von Sternberg e con protagonisti Marlene Dietrich, Herbert Marshall e Cary Grant.
Blonde Venus è un soggetto dalla struttura interessante, che riprende quella della fiaba rispettandone, peraltro, tutti i punti: abbiamo l’introduzione ai protagonisti, la rapida discesa nelle peripezie che devono affrontare per uscire da una situazione difficile, il momento critico di riflessione e il finale. Se sia un lieto fine non ci è dato saperlo. Certo è che il film sa come premere i tasti giusti, avvalendosi di una storia semplice per puntare il proiettore su figure drammatiche che lo rendono un modello valido per molte trame odierne.
La vicenda segue Helen, ex cantante tedesca alle prese con una burrascosa storia d’amore con Nick Townsend (Cary Grant), che si insinua nel suo già travagliato rapporto coniugale con Ned (Herbert Marshall), padre del loro figlio Johnny e malato di radiazioni. L’allontanamento di Ned in Europa mette Helen in crisi; così, per pagargli le cure decide di diventare l’amante di Nick, facendosi dare un anticipo sulle sue esibizioni come “venere bionda” nei night club. Dal semplice favore nasce un interesse amoroso, ponendo Nick e Helen di fronte al tema delicato dell’adulterio.
La struttura narrativa è chiara: la partenza di Ned costituisce il primo motivo di difficoltà, nonché l’avviamento alle peripezie della moglie, costretta così a “farsi da sé” per sopperire alla sua mancanza fisica ed emotiva. Da parte sua, Nick si mostra benevolente nei confronti di Helen, offrendo soldi in più per la terapia di Ned. Di contro, il tradimento di lei occupa uno spazio minimo nel metraggio, facendo piuttosto da collante alle conseguenze legali che deve fronteggiare; la fuga diventa così un altro fil rouge. Ormai ricercata, Helen scappa col figlio a Parigi, dove riprende a cantare ma diventa facile bersaglio della polizia, che la arresta a New Orleans. Rilasciata, la donna riprende il viaggio, che si conclude in Texas, dove si costituisce.
La psicologia del film attira molto l’attenzione, grazie a scelte narrative decisamente coraggiose per l’epoca. Ponendo Helen come attrice principale, ne viene esplorato uno spettro psicologico ed emotivo ad ampio raggio che permette al pubblico di entrarci in simpatia. Si parla di una continua altalena fra toni allegri e giocosi e altri decisamente più seri, incentrati su questioni che oggi considereremmo quasi tabù: il suicidio, ad esempio, è il filo conduttore nella breve parentesi di Helen nel carcere femminile. La mancanza di prospettive verso una vita migliore per lei e il figlio, legata alla situazione economica instabile, apre un punto di riflessione sulla condizione mentale di una madre disperata che, con amara ironia, accenna a volersi togliere la vita.
Se il film era partito lento, dal momento di rottura, introdotto con la partenza di Ned, si fa decisamente più rapido e ansiogeno. L’odissea di Helen diventa un puzzle di dettagli sfuggenti, come la vittima della fuga. La frenesia dei suoi viaggi è resa efficacemente da un montaggio altrettanto frenetico ed equivoco, fatto di accavallamenti di campo alternati a momenti di dialogo dilatati. In mezzo alla smania di scappare, alla protagonista viene concessa “una pausa” in esibizioni canore e di danza, di cui alcune diventate iconiche: prima fra tutte, la danza del gorilla (nella canzone Hot Voodoo). Quando Helen canta, è come se il tempo narrativo si congelasse, permettendole di fermarsi un momento per poi subito ripartire.
La velocità con cui gli eventi si susseguono viene però bruscamente interrotta dal fatidico ritrovo tra moglie e marito, dilatando la cronistoria all’estremo. È un momento decisivo, che decreta le sorti della famiglia con la risoluzione di Helen di lasciar andare Johnny. Ma ecco che, non appena si pente della sua decisione, il film riprende la corsa, al pari del treno su cui salgono padre e figlio in un raffazzonato addio. Transizione e ritroviamo Helen cantare a Parigi, apparentemente felice della sua situazione attuale. Ritrova Nick, che le propone di vedere Johnny; dopo un primo rifiuto, la donna accetta, trovando il modo di riconciliarsi con Ned raccontando al figlio la storia del loro primo incontro.
A questo punto il cerchio si chiude, ripresentando lo status quo di partenza. Ma a quale prezzo? Helen è una donna diversa, ora. Il suo viaggio l’ha portata ad affrontare situazioni e sensazioni sepolte, che solo la disperazione della fuga ha potuto far riemergere. Si potrebbe parlare quasi di un viaggio di formazione, da cui solo lei ottiene il cambiamento necessario a ristabilire un apparente equilibrio - o proporne uno nuovo. Helen, seppur cambiata, rimane la colonna salda del rapporto con Ned e Johnny, ne è il ponte. Ponte reso emblematico dall’inquadratura del carillon che fa suonare mentre canta la ninna nanna al figlio, come formula di chiusura che si riallaccia all’inizio.
Alla fine, che cosa definiamo davvero vintage? Tutto ciò che può essere impresso nella memoria visiva, facilmente ricordato e tramandato, perché mette da parte lo spazio narrativo per dar rilievo al visivo. È vintage un abito, una scenografia, persino un attore. Blonde Venus adempie saggiamente al compito, non solo offrendo un cast attoriale memorabile - anche per l’epoca -, ma anche facendo ricorso a momenti con cui il pubblico possa facilmente familiarizzare. Mi riferisco soprattutto a musiche e canzoni, probabilmente tra i punti più forti della pellicola ancora adesso. Non è un caso che i prodotti successivi che abbiano voluto menzionare questo film si siano rifatti alla danza del gorilla; The Dreamers, di Bernardo Bertolucci (2004), ripropone il momento durante una sfida tra Isabel e il fratello per riconoscere il film da cui è tratta la coreografia. O ancora, Poison Ivy che si traveste da gorilla in una scena di Batman e Robin (Joel Schumacher, 1997).
Insomma, Blonde Venus sa come portare i suoi 90 anni; esprime un potenziale narrativo solido, con intelligenti equilibri tra il gioco e il dramma, facendo da interessante ponte di lancio per le tematiche di prodotti successivi e contemporanei, al pari dei migliori film di Judy Garland.
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