Pillola o Tic Tac? Breve storia del consenso informato e del testamento biologico

Di Federico Rossato

Se è vero che la filosofia è famosa per essere tradizionalmente attività contemplativa, è altrettanto da ricordare come, sfruttando le parole di Camus, «questa lotta vi appartiene». Argomento all’ordine del giorno, dunque, sarà una piccola ricapitolazione di quella cosa che in gergo viene chiamata “bioetica di frontiera”, ovvero quella branca della bioetica che affronta le questioni che suscitano il clamore, la meraviglia, lo sgomento e le controversie persino nell’opinione pubblica. Va fatto notare come, per misteriose ragioni, solo sui “nuovi” temi della bioetica (leggasi: aborto, fecondazione assistita, clonazione, trapianti ecc.) emerga un forte dissenso e contrasto, abbandonando, ahimè, i veteres mores degli scontri sulla migliore teodicea a colpi di Agostino d’Ippona, Leibniz e chi più ne ha, ne metta. In poche parole, andiamo parlando di “bioetica della quotidianità”, ovvero bioetica che va trattando intorno ai problemi che si presentano quotidianamente alle persone comuni e non esclusivamente a fobici topi da biblioteca.

Un grande tema della “bioetica quotidiana” è quello del consenso informato, ovvero quella pratica che prevede il chiedere all’interessato l’approvazione per l’intervento da attuare. Il consenso presuppone, si presti attenzione, l’informazione (dello stato di salute, delle possibili conseguenze e delle eventuali alternative) e su questo, fuorché posizioni reazionarie da Madre Teresa di Calcutta, c’è abbastanza consenso. Detto ciò, nulla spunta ex nihilo, conseguentemente perché andiamo trovando accordo e discreta convergenza almeno su questo problema bioetico?

Su per giù una decina d’anni fa, Mariella Immacolato parlò di una “rivoluzione silenziosa” avvenuta nel decennio precedente: senza suscitare particolari clamori o discussioni, questa rivoluzione avrebbe scavato in profondità nel senso comune, cambiando gli atteggiamenti radicati sul tema della salute. Solo qualche tempo prima, l’opinione prevalente era completamente diversa, in quanto si riteneva che il medico non avesse il preciso compito d’informare il paziente, si ripensi alla sentenza della Corte d’appello di Milano del novembre ’64 ove si diceva "[...] che il chirurgo taccia al malato la gravità del suo male e il rischio che un'operazione comporta è un criterio sanzionato da una prassi tramandata da tempi antichissimi, secondo cui il celare all'ammalato la nuda verità è preciso dovere, forse il più nobile". Saltiamo in avanti di un decennio e siamo nel 1975 quando viene scritto che “il paziente può anche non essere informato della diagnosi”, facendo da sfondo al fatto che, negli anni '80, nella patria del mandolino, di Berlusconi, della Mafia, della pizza e di Pippo Baudo, era ancora prevalente l’idea che al medico spettasse il cosiddetto privilegio terapeutico, ovvero la facoltà di fare o meno informazioni rispetto alla diagnosi. La situazione cambierà radicalmente negli anni '90 in seguito a tre sentenze intorno al caso Massimo, celebre chirurgo condannato per aver operato al di là di quanto richiesto dalla paziente, non adeguatamente informata rispetto alla propria condizione.

La pratica del consenso informato è diventata ormai uno dei parametri con cui viene valutata la qualità dell’attività del servizio sanitario. La giurisprudenza e la medicina legale considerano, di comune accordo, il consenso informato il fondamento della pratica sanitaria, la base di partenza di qualsiasi trattamento. Su questo tema, però, ritorna una contrapposizione già accennata all’interno dell’articolo che fu sullo sbattezzo, ovvero del contrasto tra etica della sacralità della vita ed etica della qualità della vita. I casi paradigmatici, in tal senso, sono tre:

1. il caso della signora Maria, donna che nel 2004 ha negato il consenso per l’amputazione di una gamba, preferendo una morte prematura all’intervento ritenuto da lei troppo aggressivo ed inaccettabile;

2. il famoso caso di Piergiorgio Welby, il quale chiese, nel 2006, di essere anestetizzato prima della sospensione della terapia ventilatoria che lo teneva in vita, negando così il consenso al proseguimento della terapia;

3. il caso di Eluana Englaro, giunto a conclusione nel 2009 dopo una decina d’anni di battaglie giuridiche, ove la negazione del consenso informato era stata data dall’interessata in anticipo anni prima. In merito a quest’ultimo caso, si consiglia di recuperare Il caso Eluana Englaro. La «Porta Pia» del vitalismo ippocratico ovvero perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento di Maurizio Mori, edito da Pendragon. 

Eluana Englaro, fonte: Fanpage
Il grande favore della gente alla pratica del consenso informato rivela la presenza, sul piano sociologico, di un valore comune proprio dell’etica della qualità della vita. Un valore, questo, che però non è completamente assodato o scontato: la contrapposizione paradigmatica è ancora strenuamente ancorata. Il 26 marzo del 2009 fu approvato, con ampia maggioranza, al Senato il disegno di legge (i tristemente famosi DDL) Calabrò, teso a dare disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento. Il DDL Calabrò costituisce un tentativo di mini-Restaurazione della tradizionale etica della sacralità della vita, poiché l’obiettivo minimo della futura legge sarebbe stato l’impedimento dell’allargamento della falla aperta dal consenso informato a favore dell’etica della qualità della vita, limitando il valore di tale consenso a situazioni ben precise nel contesto dell’alleanza terapeutica e sottolineando che esso non vale in tutte le situazioni e per tutti gli interventi. Il DDL Calabrò rappresenta, dunque, una conferma della contrapposizione paradigmatica tra etica della sacralità ed etica della qualità della vita.

Fatto questo cappello introduttivo, ci sono due modi d’intendere l’approvazione dell’atto medico da parte del paziente: il consenso ed il consenso informato. Da sempre e per tutti, infatti, l’atto medico può essere lecitamente attuato col consenso del paziente e fin lì non c’è dubbio alcuno. Anche nel paradigma ippocratico, l’intervento medico è lecito solo col consenso dell’interessato. Tradizionalmente, ciò va inteso nel senso che nessuno ha facoltà di andare a casa del malato, aprirgli la bocca e piantarci dentro un farmaco oppure staccargli una gamba (N.B. fuorché per malattie socialmente contagiose, ma questo è un altro discorso ancora). Il consenso nel paradigma ippocratico, dunque, prevede che il medico parta dall’assunto che, per il fatto stesso che il paziente si reca da lui, questo atto sia già una sorta di consenso implicito alla cura, mostra cioè la volontà di affidarsi anima e corpo. Il medico, nella sua azione, è mosso dalla deontologia medica: una speciale etica propria della pratica medica, il cui compito principale è il servizio alla vita.

Il giuramento di Ippocrate

Possiamo, dunque, considerare i divieti fondamentali che il medico è tenuto a rispettare come dei binari (N.d.C. dimostrando ancora una volta la difficoltà d’uscire da una prospettiva binaria del reale): sulle rotaie scorrono i valori che scandiscono le tappe più importanti che informano l’esistenza umana e l’attività sanitaria. I binari, quindi, rappresentano la verità morale che sarebbe data ed inscritta nel processo vitale: l’autentica libertà della persona starebbe solo nello scegliere di restare su di essi; dunque, l’uomo sarebbe autenticamente libero qualora seguisse la verità morale, cioè rispettasse i divieti assoluti stabiliti. Il medico conosce meglio del paziente quali siano questi binari della vita, ergo sa già quale sia il bene del proprio paziente e questo è quanto chiamiamo “paternalismo medico”, ovvero un atteggiamento secondo cui il medico conosce il bene del proprio paziente e può scegliere al suo posto, da qui quanto detto precedentemente sul privilegio terapeutico.

Nel suo operare, il medico ippocratico prescrive la sua azione sotto due grandi principi:

1- il celebre “primum non nocere”, ovvero un dovere che rispetti l’andazzo di un “quando prescrivi farmaci o fai un intervento, devi stare attento a far sì che la tua azione non intralci la vis medicatrix naturae”;

2- il principio dell’azione fatta in “scienza e coscienza”, dove con scienza s’intende la conoscenza dei finalismi e dei rimedi per favorirli, mentre la coscienza corrisponde all’atto finale del processo decisionale che, basandosi sui principi determinati dalla scienza, individua il da farsi nella situazione concreta. Questo secondo principio impone(va) al medico di prescrivere solo le terapie o gli aiuti ai finalismi e di rifiutare categoricamente eventuali richieste contrarie ad essi. Il paziente aveva, infatti, un’infinita fiducia nel curante e spettava al medico capire che una qualche informazione avrebbe potuto favorire la terapia, ma sempre e rigorosamente a propria discrezione. La cosa importante era che il paziente obbedisse agli “ordini del dottore”, frase divenuta famosa nella cultura popolare. Il medico era, e da molti è ancora, guardato con assoluto rispetto, se non proprio venerazione, ponendo la sua parola oltre qualsiasi ragionevole dubbio. 

A partire dagli anni ’80, però, al termine “consenso” si è aggiunto l’aggettivo “informato”, implicando che il medico avesse il dovere d’informare il paziente prima dell’intervento, ovvero costringendolo a perdere il proprio privilegio terapeutico: andare dal medico non sarebbe più stato un atto implicito di consenso, ponendo quindi il paziente in condizione d’avere il diritto d’essere informato sul proprio stato di salute. La richiesta d’informazione porta con sé l’affermazione di sovranità sul proprio corpo e sulla propria vita, sovranità che ha come primo presupposto la conoscenza delle condizioni fisiche. Per decisioni importanti, tuttavia, il consiglio medico ha ancora un peso notevole ed infatti è richiesto frequentemente.

Il consenso informato ha due conseguenze importanti:

1- il passaggio di titolarità decisionale, la quale prima spettava al medico ed ora all’interessato;

2- il riconoscimento che l’interessato ha sovranità sul proprio corpo e sulla propria vita.

Grazie al consenso informato, il cittadino acquista, finalmente, la sovranità sul piano biomedico, possibilità data dallo smantellamento dei “binari della vita biologica” ritenuti inscritti nei dinamismi proprio della biologia umana. Qui sta il passaggio paradigmatico: per il vitalismo ippocratico, il consenso del paziente è una condizione dell’intervento sanitario, non il suo fondamento, poiché è il servizio/aiuto alla salute e la vita a costituire la base dell’attività sanitaria. In quanto condizione, può esserci oppure no; dipende fortemente dalle circostanze. Nell’altro paradigma, invece, il consenso informato è il fondamento, poiché il bene del paziente è stabilito da lui e da nessun altro. Si perde l’oggettività del bene: prima era dato dal semplice viaggiare sui binari della vita, mentre ora è scelto, ossia stabilito dalla decisione del paziente, il quale ha il controllo della propria salute, conseguentemente ha implicazione dirette sulla propria vita e la propria morte. Il caso Welby ha comportato al medico due richieste:

1- l’intervento anestetizzante per evitare la sofferenza delle ultime fasi;

2- l’intervento sospensivo della terapia respiratoria in atto, che era diventata insopportabile.

Il dottore Marco Riccio, che raccolse il consenso informato di Welby, soddisfò le sue richieste, rischiando anche l’arresto visto che alcuni vitalisti l’hanno subito accusato di aver prestato assistenza ad una presunta forma di suicidio/omicidio vietata dalla legge. Il dovere di medico, però, è - e dovrebbe essere - quello di rispettare il consenso informato delle persone malate, cosa inaccettabile per quei fautori dell’etica della sacralità della vita.

Piergiorgio Welby, fonte: vdnews.tv

Una legge comporta sempre un riconoscimento pubblico della pratica. Nel DDL Calabrò, il consenso informato è posto nel quadro dell’alleanza terapeutica, un modo diverso per indicare che il rapporto medico-paziente non è - e non deve essere - di carattere contrattuale e paritario, bensì caratterizzato da una radicale asimmetria che riafferma la supremazia del medico. Il comma primo del DDL Calabrò afferma che la legge riconosca e tuteli la vita umana, così come il comma terzo riconosce che nessun trattamento sanitario possa essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato, fermo il principio secondo cui la salute deve essere tutelata come fondamentale diritto dell’individuo. Il comma quarto precisa che la legge impone l’obbligo al medico d’informare il paziente sui trattamenti sanitari più appropriati, riconoscendo come prioritaria l’alleanza tra medico e paziente. Il comma quinto vieta ogni forma di eutanasia e di assistenza/aiuto al suicidio, considerando l’attività medica esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute.

Il consenso informato deve essere esplicitato e attuale, non è richiesto (comma nono) quando la vita della persona incapace di intendere e di volere sia in pericolo per il verificarsi di un evento acuto, ovvero viene assegnata, ancora una volta, totale discrezionalità al medico. La dichiarazione anticipata di trattamento, dunque, sarebbe una manifestazione di volontà fatta in precedenza, ovvero non può contenere indicazioni circa l’aiuto al suicidio o l’eutanasia. L’alimentazione e l’idratazione vengono concepite come forme di sostegno vitale, ma non essendo terapie mediche non sono oggetto di una dichiarazione anticipata di trattamento.

Il comma sesto dell’articolo quarto stabilisce che in condizioni di urgenza, o in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non può essere applicata. Il disegno centrale del DDL è quello di ristabilire la sacralità e l’indisponibilità della vita custodita dalla supremazia del medico. In questo quadro, il consenso informato diventa una condizione tra le altre. Compito del medico, dunque, è quello di consigliare sempre le terapie appropriate e non di essere un osservatore neutrale che rispetta la scelta meditata dell’interessato. C’è anche il tentativo di svuotare il nuovo istituto del testamento biologico, si pensi a tutti i tentativi del Parlamento di legiferare contro di essa, conseguentemente contro il progresso scientifico.

Perché, quindi, la battaglia proprio sul testamento biologico? Il testamento biologico comporta l’estensione del consenso informato, di cui si cerca di bloccare il movimento di espansione. Con testamento biologico si intende un documento scritto in cui, in anticipo, quando è ancora sano, consapevole e capace, l’interessato lascia disposizioni circa la propria fine nel caso essa sopraggiungesse quando ha perso la capacità decisionale e va indicato un fiduciario, che decida per lui ove si presentassero situazioni non previste nel testamento. Esso è una forma solenne della direttiva anticipata, ossia la disposizione lasciata anche in forma orale ad amici o persone di fiducia circa i trattamenti di fine vita. Per ora, però, in Italia non sorprenderà sapere che le direttive anticipate ed il testamento biologico non hanno alcun tipo di valore giuridico, ovvero il medico può tenerne conto oppure no. Il riconoscimento giuridico del testamento biologico costituirebbe una conferma ed un consolidamento del consenso informato, ma, come detto in precedenza, si è alla frontiera della bioetica, ove ogni passo oltre la trincea va conquistato a colpi di baionetta caricata ad inchiostro e sangue.

Dunque, qual è il fondamento etico e filosofico del testamento biologico? L’esigenza del testamento biologico si basa su due considerazioni di fondo:

1- il fatto che la scienza medica abbia fatto emergere un nuovo spazio al termine della vita. Si pensi a come, in passato, le persone morivano in un tempo breve e non c’era molto da fare, mentre oggi il morire può richiedere anche anni e molte decisioni. Chi dovrebbe prenderle? In base a quale criterio?

2- l’idea che il consenso informato sia il fondamento dell’attività sanitaria comporta che questo debba essere sempre necessario, conseguentemente, quando la persona non è più capace, si deve in qualche modo ricostruirlo per evitare che l’assistenza sia illegittima.

Il fondamento di questa duplice estensione sta nell’uguaglianza dovuta alle persone. Se la persona capace ha il diritto di dare il consenso informato che è vincolante per l’operatore sanitario, non si capisce perché perda tale diritto con la perdita della capacità. La nuova condizione di incapacità impedisce la manifestazione attuale del consenso informato che con preveggenza è stato lasciato precedentemente. Privare il cittadino della facoltà di lasciare un testamento biologico significa creare una palese discriminazione (morale) tra chi è cosciente-capace e chi, invece, non lo è più. Il Movimento per la Vita Italiano afferma che ci sarebbero due grandi differenze tra chi è cosciente e chi è incosciente, argomentando il perché non si potrebbero trattare in modo uguale.

Il Movimento per la Vita Italiano

La prima differenza consisterebbe nel fatto che con il soggetto capace d’intendere e di volere sia possibile, se non proprio doveroso, un colloquio, mentre con il malato in coma questo non sarebbe realizzabile. Questa è una differenza decisiva perché il primo dovere dell’operatore sanitario è di convincere alla cura.

La seconda differenza, invece, starebbe nel fatto che la persona capace può cambiare idea e/o volontà, mentre chi ha perso la capacità non può farlo. “Solo chi è veramente libero può cambiare le proprie decisioni” sarebbe la linea argomentativa del Movimento, ove se una scelta precedentemente fatta diventasse irrevocabile ed il soggetto fosse costretto a rispettarla, anche qualora non l’accettasse più, egli non sarebbe libero. Al netto dell’ipocrisia e dell’arrampicamento sugli specchi degno di Spider- Man, una volta persa la capacità si dà per scontato che valga l’ultima volontà dichiarata.

Quindi, quali sono le difficoltà di un testamento biologico? Innanzitutto, solo una minoranza delle persone si preoccupa di sottoscrivere il proprio testamento biologico, principalmente per la sua scarsa diffusione, non venendo nemmeno percepito come qualcosa di urgente e necessario, ma più come un orpello. Esso, per ora, sembra essere lo strumento più valido per consentire ai cittadini l’estensione del diritto di autodeterminazione che prende corpo nel consenso informato. I vitalisti ippocratici considerano il testamento biologico o inutile o inapplicabile, se non entrambe le cose allo stesso tempo.

Una prima obiezione al testamento biologico riguarderebbe il testo scritto, ossia la modalità specifica di attuazione. Solo personale altamente qualificato potrebbe offrire garanzie di autenticità e di non contraffazione del testo, oltre a quelle di riservatezza. Il testo andrebbe, inoltro, redatto con l’ausilio/supervisione di un medico, insieme al notaio, oltre alla necessità di dover essere rinnovato dopo un certo numero di anni. Detto ciò, il ricorso al notariato è un ulteriore disincentivo, andando a far diminuire ulteriormente la partecipazione al progetto.

Una seconda obiezione riguarda, invece, il fatto che l’interessato dia ora per allora una direttiva anticipata. Questa previsione per il futuro è ritenuta inaccettabile per due motivi: l’interessato potrebbe cambiare idea nel tempo, ergo bisogna premunirsi per evitare questa eventualità; la scelta ora per allora non vale perché chi è sano non ha titoli di prendere decisioni circa la situazione di malattia, non avendone ancora una concreta esperienza. La prima obiezione è di carattere pratico ed è facilmente risolvibile, osservando che il testamento biologico non esclude la possibilità di cambiare idea, fintanto che sia mantenuta la capacità di comunicarlo. La sua validità inizia nel momento in cui tale capacità venisse a mancare. Per quanto riguarda la seconda obiezione, invece, non si può dichiarare invalido il testamento biologico perché affermato in tempo di salute, poiché sarebbe solo un modo per annullare la titolarità decisionale.

Una terza obiezione al testamento biologico riguarda la delega al fiduciario che, a volte, può essere incapace di indicare la volontà del testatore. La sua figura è necessaria per dire l’ultima parola nei casi in cui manchi una precisa disposizione; è anche delicata perché amplia notevolmente la dottrina del consenso informato, ponendo in essere un trasferimento di titolarità a terzi. Gli operatori sanitari devono avere qualcuno di riferimento con cui interloquire, ed è auspicabile che sia una persona di fiducia indicata dal testatore, conoscendone dunque i valori ed i piani di vita.

Quarta obiezione sarebbe quella riguardante la vincolatività, per il medico, delle disposizioni testamentarie lasciate per iscritto o al fiduciario. Il medico è tenuto a rispettarle o possono essere trascurate? I critici vedono in questa clausola una svalutazione della professione medica. Solo il medico, infatti, saprebbe quale sia il bene del paziente, conseguentemente vincolarlo alla volontà del testatore sarebbe uno stravolgimento della sua professionalità. Anche per questo si parla di dichiarazione e non di direttiva anticipata, per escludere ogni forma di vincolatività. 

Facendo un sunto: le direttive sono disposizioni che vincolano terzi; le dichiarazioni, invece, delle espressioni d’intenti o di orientamento senza alcuna forza vincolante. Il medico ha il compito di salvare la vita (come processo generale) o di servire la persona e le sue esigenze? Rispettando la volontà dell’interessato, il medico se ne guadagna la fiducia. Le direttive anticipate indicate nel testamento biologico sono un gesto di collaborazione teso a facilitare l’impegno del medico nelle cure di un paziente che si sente rispettato nelle proprie scelte circa le terapie che lo riguardano in prima persona.

Nelle loro prime concezioni, i testamenti biologici prevedevano soltanto la sospensione delle terapie sproporzionate; l’ambito delle previsioni è poi stato allargato per includere anche la sospensione della nutrizione e dell’alimentazione artificiali. Secondo alcuni, questo porterebbe ad ammettere anche una forma di “eutanasia per abbandono”, dal momento che la causa di morte sarebbe determinata dalla denutrizione e non dalla precedente patologia. A breve è previsto, però, un ulteriore passo che includerà anche l’eutanasia attiva, ossia l’atto teso ad accelerare la morte compiuto su richiesta dell’interessato. 

Le obiezioni mosse contro il testamento biologico sono fatte per evitare il “pericolo” di legittimazione dell’eutanasia. La prima questione, ovvero quella secondo cui includere la sospensione della nutrizione e dell’alimentazione artificiali costituirebbe un primo passo verso l’eutanasia passiva, è ingiustificata per due motivi:

1- le società scientifiche di tutto il mondo considerano nutrizione ed idratazione una terapia medica analoga alle altre, quindi come tale sottoposta al consenso informato;

2- anche se non fosse una terapia medica, nutrizione ed idratazione comportano sempre e comunque un intervento sul corpo di una persona e come tale richiede il suo consenso.

La seconda questione riguarda l’idea del testamento biologico come cavallo di Troia per sdoganare l’eutanasia attiva. Dal punto di vista storico, la connessione non è così immediata come l’obiezione faccia credere, esistente però dal punto di vista logico. Il testamento biologico sarebbe il sigillo che certifica il primato dell’autodeterminazione sulla vita biologica, portando a compimento il processo iniziato con il consenso informato.

In definitiva, il testamento biologico comporterebbe una crescita di civiltà, ovvero un ampliamento dell’esercizio della libertà individuale anche a fine vita dopo la perdita della capacità decisionale. Il testamento biologico come allargamento del consenso informato è un vitale strumento per la conquista della sovranità sulle fasi finali della propria vita, prima che il sipario venga definitivamente calato e il resto non sia che silenzio.


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