Il "Festival delle Migrazioni" di Torino, in pillole

Di Chiara Vecchiato e Alessandra Vita


"L'arte non può restare indifferente, si deve sporcare le mani con ciò che sta succedendo nel mondo, deve prendere posizione": così esordisce Beppe Rosso, cofondatore di A.M.A. Factory e uno dei tre direttori artistici del Festival delle Migrazioni (insieme a Simone Schinocca di Tedacá e Gabriella Bordin di Alma Teatro), durante la conferenza stampa di presentazione di quest'ultimo. Alla sua quarta edizione, il Festival delle Migrazioni ha saputo offrire a Torino sei giornate ricche di arte, spettacoli, incontri e interessanti spunti di riflessione. Sono stati esaminati, giorno per giorno, i vari tipi di migrazioni possibili e le diverse conseguenze a cui ognuna può portare. 
Quest'anno noi di Tapioca Blog abbiamo avuto modo di seguire il festival molto da vicino, e non nego che ne siamo rimasti impressionati. Trovarsi davanti corrispondenti esteri, persone che tutti i giorni hanno a che fare con situazioni delicate e con gente abbandonata a sé stessa, e ragazzi della nostra età che sono sopravvissuti a un viaggio in mare mortale, è un'esperienza che segna.
Abbiamo conosciuto le storie di decine di persone, come Chris Obehi, cantautore nigeriano di 24 anni, sopravvissuto a un viaggio della speranza fino a Lampedusa, o Muna Khorzom, attivista siriana che da molti anni lavora in Italia, occupandosi di diritto dell’immigrazione, diritti umani e formazione. Abbiamo poi avuto modo di vedere diversi spettacoli: di seguito troverete un resoconto di quelli che ci hanno lasciato qualcosa in più.

The gipsy marionettist: uno spettacolo di pubblico!

Di Alessandra Vita

Foto di Emanuele Basile

Questo show è uno di quelli che mi ha colpita maggiormente. Nato come uno spettacolo di strada, tutto lo spettacolo si regge sulla figura di Rasid Nikolic, ragazzo e attivista rom, artista busker e, se così si può dire, un artigiano di marionette. Egli col suo carisma da stand up comedian riesce a coinvolgere il pubblico, che parte dai bambini e arriva agli adulti, ma soprattutto sa rendere il pubblico il suo stesso spettacolo. Chiamando persone a caso, infatti, Rasid fa diventare loro stesse delle marionette umane, con lo scopo di conoscersi a vicenda e combattere la timidezza. L'atmosfera conviviale che si crea è quindi il maggior artefice del successo dello show, che ha registrato un sold out. La parte dello spettacolo dedicata alle vere e proprie marionette incanta tutti, grandi e piccini. Il legno si muove nello spazio in modo quasi umano, un materiale così statico subito inizia a prendere vita, diventando prima uno scheletro, poi una ballerina di danza del ventre e infine una tigre.

Non possiamo fare altro che invitarvi a girare per le strade di Torino alla ricerca di un nuovo spettacolo di Rasid!

Love’s Kamikaze: la denuncia attraverso l’amore

Di Chiara Vecchiato

Love’s Kamikaze non doveva essere il mio spettacolo. In anticipo sulla tabella di marcia, direzione via San Pietro in Vincoli, si supera il cortile e con alle spalle un «in fondo, a destra!» si entra in questa piccolissima sala. Strapiena. Poche sedie e qualche sgabello che sembrano riempire l’intero spazio disponibile. Io sono in ritardo, sì, ma per lo spettacolo precedente a quello per il quale mi ero segnata. Fa niente, mi siedo. 

Sul palco, che palco non è, ci sono Giovanna Lombardi e Claudio Contartese, rispettivamente nel ruolo di Naomi, ragazza ebrea, e Abdul, palestinese. È importante sottolineare la loro nazionalità? Sì, quando si tratta del motivo per il quale i due non possono amarsi. Nasce così uno spettacolo che sembra legato alla relazione tra i due giovani, ma che in realtà ha un secondo strato molto più importante: il conflitto arabo-israeliano e il razzismo. 

Foto di Stefano Roggero

Un razzismo che non si consuma solamente tra i due popoli, ma che passa anche attraverso le rispettive religioni, simili e al tempo stesso diverse. Naomi ci ricorda che lei segue la Torah, mentre Abdul il Corano, ma si interroga su quale sia la vera differenza tra l’essere ebreo oppure arabo: «apparteniamo tutti al genere umano, cosa vuol dire [che a fare la differenza è] “la religione”? Cazzate». Poco dopo esplode in fragorose risate, perché, si sa, «l’umorismo è il vaccino contro il razzismo e il fondamentalismo». 

La frase fa riflettere, se si pensa al settimanale satirico Charlie Hebdo (Francia). Forse nemmeno l’umorismo potrà salvarci. Non ha salvato Naomi e Abdul; loro continuano a litigare, sotto il cielo di Tel Aviv le loro idee si scontrano e le luci del palco lo mettono ben in evidenza, passando dal blu più gelido (che spesso illumina il ragazzo) al rosso più passionale (dedicato a Naomi). Paradossalmente è proprio nei loro momenti di intimità, mentre dialogano immersi in mille emozioni, che si toccano i temi più complessi; la ragazza, durante quella che è la simulazione di un amplesso, denuncia esplicitamente le condizioni disumane di un popolo sconvolto dalla guerra. 

Sembra tutto un ossimoro: lo spettatore viene trascinato in questo scenario in cui vede un amore giovane, ma sente parole angoscianti. Abdul ci spiega come la sua vita sia stata complicata, di come abbia già tentato di accettare la sua nazionalità, l’essere palestinese, senza successo. Il peso è troppo, «la storia non ha nulla da insegnarci». Non è forse vero? Chi se la sarebbe sentita di alzarsi, andare incontro ad Abdul e dirgli che la storia ci sta insegnando a vivere il presente? Naomi, oramai, inizia a vedere la realtà delle cose e a capire che per loro «vivere significa non andare in un ristorante per paura che il tetto crolli a causa di una bomba». 

Foto di Stefano Roggero

«Ma si può vivere di solo amore?» le chiede lui. Si baciano a lungo, mentre un timer conta l’ultimo minuto che rimane prima dell’esplosione di quella bomba che porrà fine alle loro vite. Abdul vuole morire da kamikaze, senza lasciare il minimo ricordo e Naomi decide di seguirlo, per amore. Se amore verso di lui o verso la patria, però, non lo sappiamo. 
«È sempre con i corpi che si fa la storia» gli risponderà la voce di lei, lontano, fuori campo.

Lacrime di sale

Di Alessandra Vita


Per Lacrime di sale non posso dare un giudizio completo, in quanto mi sono sentita male a metà visione e sono stata costretta a interrompere la mia permanenza a teatro. Il mio stare male è stato a conseguenza proprio dello spettacolo. L'opera si basa infatti sugli scritti di Pietro Bartolo, medico di Lampedusa che per più di 25 anni ha accolto, curato e ascoltato migliaia di migranti arrivati sull’isola. In scena vi sono l'attrice Antonella Delli Gatti, che interpreta leggendo in prima persona degli estratti dei testi di Bartolo, il chitarrista (e nello spettacolo anche rumorista) Rocco Di Bisceglie e il videoartista Stefano Giorgi.

Le descrizioni della sofferenza, fisica e psicologica, l'atmosfera immersiva e la crudezza di tutte quelle parole a un certo punto è stata troppo forte per me. Ed è proprio questa la potenza del teatro: portarti altrove, far conoscere, insegnare ma anche impressionare, nel senso di lasciare un'impronta. Credo che se certe persone vedessero anche solo una mezz'ora di Lacrime di sale potrebbero mettere in discussione tutto ciò in cui credono. È anche vero però che spesso chi va a vedere questi spettacoli è già predisposto all'empatia e si finisce per "sensibilizzare" chi è già sensibilizzato. La questione è spinosa.

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