Di Federico Rossato
Umberto Eco, all’interno di una conferenza organizzata dall’Università degli studi di Bologna nel 2002 a margine della pubblicazione di Di fronte ai classici. A colloquio con i greci e i latini, curatela di Ivano Dionigi, forniva la migliore definizione sociologica possibile di un classico della letteratura, ovvero «un classico è un libro che tutti odiano perché sono stati obbligati a studiarlo a scuola». L’intervento prosegue poi ricordando una ovvietà che tendiamo a dimenticare, ovvero che i classici, dalla Commedia di Dante alla Recherche di Proust passando per i Dolori del giovane Werther di Goethe, sono stati tutti bestseller del loro tempo, ponendosi quindi come dei superstiti. Capita sovente anche in altri campi, si pensi alla cinematografia, intorno alla quale abbiamo un meraviglioso osservatorio costituito dalla pagina Facebook de Il cinéfilo nell’era dell’Internét, ma, vuoi per antico lignaggio o per fatale destino, il mondo dei libri vive questa schizofrenia da secoli, costantemente dibattendosi tra il desiderio di elevare questo o quell’altro scritto e riconoscere il fatto che, alla prova del tempo, non sopravvivano che i testi più adeguati al compito.
Questo vuol forse dire che tutti bestseller sono carta da zeppe? Certamente no. Questo vuol forse dire che tutti i bestseller sono perle di raro splendore? Certamente no. Tutto questo implica solo che, a dispetto di quanto noi non si creda, la classicità, con buona pace della cavallinità platonica, non è una proprietà intrinseca delle opere, bensì un lentissimo percorso storico che vede alcuni libri sopravvivere ad altri. Esempi? Senza scomodare tutta la miriade di opere citate nella Poetica di Aristotele e di cui abbiamo frammenti sparsi nei migliori dei casi, si pensi a Cuore di De Amicis, ormai essenzialmente sconosciuto al grande pubblico, fuorché ad alcuni, adeguatamente vecchi o curiosi, che hanno memoria della strenua apologia echiana del Franti nel primo Diario minimo. Dunque, si rende necessario ridiscutere cosa s’intenda per “libro imprescindibile”, se effettivamente esista un qualche testo imprescindibile e se ci sia lecito sperare in un Empireo letterario.
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Il libro imprescindibile si presenta come una forma evoluta di classico della lettura, uno di quei libri che non si possano aver letto. Questo ci porterebbe a pensare ai nomi altisonanti della storia della letteratura, quantomeno occidentale, come Platone, Dante, Shakespeare, Schiller, Goethe, Mann, Bulgakov e Giulia De Lellis, stando alle classifiche dei libri più venduti dalle grandi case editrici. Emerge un problema prima di subito volendo perseguire questo discorso, o qualunque simile al classico canone bloomiano, ovvero il criterio, o i criteri, attraverso cui giudicare la imprescindibilità di un testo piuttosto di un altro. La ricezione storica, risposta che balena immediatamente alla mente come un fulmine sulla strada per Damasco, è fuori discussione, poiché dovremmo considerare testi non sopravvissuti ai classici problemi del tempo riguardanti i libri, quali incendi, alluvioni, riscritture, carta igienica improvvista o Santa Inquisizione (in questo periodo, fortunatamente, troppo occupata da Peppa Pig ed una sirena caraibica), come testi che sono sì sopravvissuti, ma ormai pressoché ininfluenti per i lettori (si pensi al sopra citato Cuore o al Romanzo della rosa di Guillaume de Lorris e Jean de Meun).
Il libro imprescindibile, in buona sostanza, è tale nella misura in cui ad un certo gruppo di persone prende lo sghiribizzo di renderlo oggetto di dibattito culturale. Così funzionò per Hegel, Schelling, Hölderlin ed i romantici per i testi dell’antichità, giusto per fare un esempio discretamente autoevidente. Conseguentemente da ciò, imprescindibile è la lettura più gettonata del periodo storico, ovvero quella che costituisce la chiave più adeguata per comprendere le enciclopedie, sfruttando un concetto semiotico echiano, di coloro con cui ci relazioniamo, ovvero di coloro che dovremmo poi interpretare in punta di fioretto.
Dunque, esiste forse un qualche libro imprescindibile? Ovviamente no, bensì solo testi che vengono presi come riferimento in un determinato contesto, ponendosi come meritevoli di più cure dei propri colleghi: così abbiamo periodi in cui spuntano edizioni di 1984 come funghi, Antonio Moresco giace pressoché intoccato nei magazzini delle librerie e della prima Critica kantiana abbiamo ancora la traduzione, seppur storicamente iconica e puntuale, di Pietro Chiodi della fine degli anni Sessanta.
Questo comporta continue oscillazioni che, da un lato, giovano il metodo di studio, poiché costringono ad un continuo riassestamento dell’obiettivo prospettico (es. parlare di fumetto, oggi, significa parlare anche di Giappone, come dimostrato dalla nuova organizzazione delle librerie convenzionate con grandi case editrici, anziché solo di Bonelli e, qualora mai si fosse desiderata l’etichetta di “radical chic”, produzioni franco-belga), ma dall’altro costringono gli studiosi a doversi costantemente adeguare a queste fluttuazioni, alle volte avendo la fortuna di vedere riediti testi estremamente utili, altre dovendo piangere in cirillico sui siti di libri usati (cfr. La filosofia come sapere storico di Eugenio Garin, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano di Giovanni Tabacco o Locke ed il diritto naturale di Norberto Bobbio). Tutto questo ignorando il monumentale problema costituito dalle politiche metaeditoriali delle grandi case editrici, le uniche con le risorse per permettere veri e propri cambi all’interno del panorama culturale, ma ciò tratteremo successivamente.
Nonostante tutto ciò, avrebbe senso sperare in un canone composto da libri imprescindibili? O, riformulando la domanda, avrebbe senso sperare in un fondamento solido di libri intorno ai quali costruire ogni potenziale propaggine di ricerca? Al netto del fatto che nemmeno i libri imprescindibili sarebbero salvi dalle derive più fantasiosamente eterodosse, ovvero quelle che in semiotica si chiamano decodifiche aberranti, e quindi una loro rinascita indipendente dal testo originario (cfr. Shadow History in philosophy di Richard Watson all’interno del numero di gennaio 1993 del Journal of the History of Philosophy), la definizione di un blocco fondamentale di scritti non farebbe che cozzare contro una costante inadeguatezza, tanto su piani nazionali quanto su quelli internazionali: come scegliere tra l’Educazione sentimentale e la Storia di Genji? Anche restringendo, tra Flaubert e Mistral come decidere, fuorché restringendo sempre di più le maglie di valutazione, arrivando inesorabilmente alla fondamentalità di ogni singolo scritto, poiché, rubando la definizione di segno di Charles S. Peirce, «qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos'altro sotto certi aspetti o capacità» (1).
Non potendo andare a dettar legge ai processi di significazione altrui, fuorché si abbiano voglia e capacità di tramutarsi in Zebediah Killgrave, non rimane che accettare la sartriana condanna alla libertà, in questo caso declinata all’interno di un processo interpretativo. Conseguentemente, alla domanda che ci andammo ponendo, la riposta non può che essere che potremmo sperare una qualunque formulazione di fondamento, ma che questa non sarebbe che basata su progetti prettamente fideistici, alle volte vittime di apprezzabile e contradditoria ipocrisia, altre volte di raccapricciante estremismo ed intransigenza, dimenticandosi che, riprendendo Il nome della rosa di Umberto Eco, «Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l'arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto. Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre.» (2)
Concludendo, i libri imprescindibili sono un ossimoro, poiché costituiscono o un pensiero privo di contenuto nella propria formulazione, o un’intuizione sensibile del libro completamente priva di concetto che permetta l’inferenza dell’imprescindibilità, volendo abusare con sciocca furbizia dell’opportunità offerta da uno scritto kantiano, dimostrando per l’ennesima volta la libertà di significazione ed inferenza erronea che terrorizza, insieme all’urlo di Chang, qualsiasi teoria di lettura necessitata. In buona sostanza, pensare che si debba leggere necessariamente X piuttosto di Y o viceversa è un gioco da scimmie che, parafrasando il titolo di un libro di Steve Stewart-Williams, non hanno capito l’universo.
Questo, ovviamente, non significa che sia ora per una rivolta di Spartaco contro i Promessi sposi di Manzoni, bensì si vorrebbe rimarcare come i prodotti di tendenza, il mainstream, non sia pastone scadente da gettare alle masse, cercando necessariamente il classico, ponendolo come caposaldo di una formazione degna di tale nome, poiché, oltre a costituire una neanche così discreta ammissione di classismo, sarebbe un’affermazione fondata tanto quanto sostenere che A non sia uguale A o che, citando il libro gamma della Metafisica di Aristotele, «il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo» (3). Tutta la differenza del mondo non sta nello statuto ontologico di un’opera, bensì nel metodo d’indagine di questa. Topolino e Rousseau non sono diversi in nulla all’occhio del lettore critico, poiché entrambi sono simulacri di estremo interesse, costituendo un corpo d’indagine richiamabile alla sbarra di un tribunale critico (ovviamente nel senso più lato del termine, non nella accezione kantiana, la quale implica secoli di duro lavoro filosofico che hanno, almeno potenzialmente, ben poco a che spartire con questo discorso).
In buona sostanza, si legga quel che si vuole, ma ponendosi sempre in termini critici rispetto all’opera, ovvero studiando ed approcciandola non come mero intrattenimento o dovere istituzionale, bensì come imputato di un processo ai limiti di validità delle proprie posizioni.
Bibliografia:
(1) U. Eco, Trattato di semiotica generale; Milano, La nave di Teseo; 2016; p. 38
(2) U. Eco, Il nome della rosa; Milano, La nave di Teseo; 2020; p. 555
(3) Aristotele, Metafisica; Milano, Bompiani; Libro Gamma, cap. 3, 1005 b 19-20.
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