Un amore che consuma: “La signorina Giulia” in scena al Teatro Gobetti

Di Chiara Vecchiato

Il sipario del Teatro Gobetti di Torino si apre nel silenzio assoluto. Sulla scena, Christian La Rosa (Jean nell’opera), bloccato in uno spazio a forma di un’enorme T distesa in orizzontale. La sua voce, fuori scena, spiega un incubo ricorrente, mentre l’attore cerca di uscire da questo spazio verticale che lo costringe a poter guardare solo verso il pubblico. Inizia così l’adattamento di Leonardo Lidi dell’opera di August Strindberg, La signorina Giulia: nella semplicità. 

Christian La Rosa (Jean) e Giuliana Vigogna (Julie) - foto di Lorenzo Porrazzini 

Capostipite del “naturalismo”, La signorina Giulia scava in profondità la psiche dei suoi personaggi, i loro istinti, le loro debolezze; affronta, senza idealizzare, lo scontro tra sessi intrecciandolo in maniera pungente con la lotta di classe. Julie (Giuliana Vigogna) è la contessina protagonista dell’opera, innamorata del domestico del padre, Jean (o Gianni), che a sua volta è il fidanzato della cuoca, Kristin (Ilaria Falini). Il naturalismo prevede semplificazione della scena e della linea temporale, in favore di un assoluto scavo psicologico della vicenda: i personaggi ne escono svuotati. 

È la notte di San Giovanni quella in cui si scontrano i due giovani, la contessina Julie e il domestico Jean si dichiarano amore, fanno l’amore, ma vengono scoperti e questo li porta alla rovina. Le loro attitudini sono diverse, così come lo è la loro classe sociale: Jean, dopo aver conquistato Julie, inizia a sognare in grande; sogna di scappare con lei e di aprire un albergo per turisti di classe. La signorina, invece, inizia sin da subito a sgretolarsi: «Dimmi che mi ami!» grida lei, «Non c’è tempo adesso!» le risponde lui; le sue certezze cadono, così come cade la maschera che entrambi portano, viene giù all’alba, quando devono decidere del loro futuro. I ruoli si ribaltano, proprio come si è ribaltato lo scenario, dalla notte al giorno. Il domestico diventa padrone, umilia Giulia, le dà della poco di buono perché «una puttana è sempre una puttana», dimenticandosi che anche lui sta commettendo un errore agli occhi di Dio.

Ilaria Falini (Kristin) - foto di Lorenzo Porrazzini

A fare da sfondo Kristin, che inizialmente rimane esterna all’intera faccenda, convincendosi che sia la signorina ad essere pazza, che sia colpa del suo essere “indisposta”; ma, passata la notte, viene risucchiata anche lei nel vortice di disperazione dei due innamorati. Cerca inconsolabilmente di sottrarsi al male che le è stato fatto dal suo fidanzato. Si ricorda che la predica di quel giorno, la domenica, sarebbe stata proprio sul martirio di San Giovanni Battista e si aggrappa alla fede, collegando Gianni a Giovanni, obbligandosi a credere che sia tutta questione di redenzione. Esce di scena solo dopo aver stretto in una morsa il cuore dello spettatore, con il suo pianto straziante alla scoperta del tradimento. 

Il tema del sangue è un fil rouge tra i personaggi: l’allusione al ciclo di Julie e la decapitazione di San Giovanni Battista, a cui si aggiungono due episodi verso la fine della tragedia, uno messo in scena da Lidi, l’altro rimasto esplicitamente solo nell’opera di Strindberg (il suicidio della giovane Giulia). Al sorgere del sole, Julie e Jean decidono di scappare; la contessina vorrebbe portare con sé il suo uccellino, ma Jean, senza pensarci un attimo di più, lo uccide. Non c’è posto per un fardello in più da portare, e con lui se ne va anche l’ultima possibilità di legame tra i due; il potere è completamente ribaltato, ora è lei la sottoposta: «Uccida anche me! Mi uccida!» e ancora, all’apice dello sconforto, quando ormai la punizione del Conte (il padre della contessina) sta per cadere su di loro, lei gli dice: «Ordinami cosa fare». Sarà lì che Jean, nell’opera di Strindberg, offrirà la via di fuga alla sua amata, porgendole un rasoio. 

La signorina Giulia è un’opera che parla di noi: «Abbiamo vissuto la pandemia, siamo stati chiusi in casa, abbiamo affrontato gli spettri, e questa è la nostra notte di San Giovanni» dice Leonardo Lidi. Tutti noi siamo stati un po’ Julie, Jean e Kristin, segregati in quattro mura fatali, colmi di segreti e afflizioni, abbiamo dovuto fare i conti con noi stessi e con le nostre vite. Eppure, continuiamo a prometterci un futuro migliore, per noi e per i nostri figli, che ci permetta di uscire dal luogo chiuso che spesso non è altro che la nostra mente. Tuttavia, non giuriamo sulla riuscita di un futuro felice, perché, come dice Kristin: «Non giurare, porta male». 

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