Di Elena Di Ruvo
Se c’è una cosa che il pubblico di sala ama vedere è il cinema dentro al cinema; e questo Damien Chazelle l’ha capito molto bene nel suo ultimo film, Babylon: un quadro assurdo ed esplosivo sul violento declino del cinema muto hollywoodiano. Ciò cui assistiamo non è il classico sviluppo di eventi che vanno da un punto A a un punto B per una trama fatta e finita; o almeno, non è lo scopo prioritario.
Diego Calva e Margot Robbie in una scena del film. |
L’opera di Chazelle è piuttosto un ardito esperimento registico che raggruppa esperienze, personalità e ansie, figlie di quell’incertezza esistenziale che il terremoto del sonoro scatena nel mondo dell’industria cinematografica fino allora conosciuto. Storie intrecciate che danno piena espressione a personalità contorte e devastate, a cominciare dalla protagonista Nellie LaRoy (Margot Robbie). I giochi voyeuristici sulla sua carriera altalenante la dipingono come la classica ragazza di campagna fatta da sé, che ha avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto riuscendo a sfondare nel mondo del cinema.
Allo stesso tempo, la sua indole fuori dagli schemi non la aiuta a tenersi fuori dai guai, creando situazioni che hanno richiamato alla memoria – prendendo le dovute distanze – un’immagine estrema di Marilyn Monroe. Il suo lavoro s’ingarbuglia con quello di personaggi più celebri quali Jack Conrad (Brad Pitt), che difficilmente riesce a smarcarsi dal cinema muto; da qui, un sofferto scontro fra tradizione e innovazione che nessuno degli attori coinvolti sembra disposto ad accettare.
Punto cruciale del film: la scalata sociale è un dirupo per la caduta nel totale oblio – per alcuni più che per altri. Il facchino Manuel Torres (Diego Calva), ad esempio, riesce a dare un’impennata notevole alla propria attività, sbarcando presto dietro la cinepresa; questo non servirà comunque a salvarlo dalla scure del cambiamento, pronta a recidere per sempre il filo invisibile che legava il cinema ad una corporalità fisica assoluta (soprattutto, ricordiamolo, muta). Ognuno affronta il trauma a modo proprio, consapevoli tutti di non poter più stare al passo coi tempi.
In questo, il regista dimostra una veduta assolutamente disincantata che ci forza a guardare il lato più oscuro della medaglia (l’avvento del sonoro) sotto una lente “distorta”. Come rispondere, dunque, a tutto ciò? Semplice: festeggiando. Il lussuoso party in villa a inizio film riassume perfettamente la percezione di caos, frenesia e dispersione che la pellicola intende infondere, esposta peraltro molto chiaramente nel titolo stesso. Babylon è la palestra della trasgressione, direttamente proporzionale al crollo di ogni riferimento nella vita. Ecco, quindi, che il bordello ne diventa la manifestazione massima, utilizzando i corpi come specchio di una verità nuda (letteralmente!) che non conosce più limiti o regole; si è padroni solo di se stessi, e chiunque abbia da ridire è etichettato come egli stesso un folle.
La musica gioca un ruolo altrettanto fondamentale nel provocare “stordimento” sensitivo ed emotivo, scandendo le note in un ritmo talmente serrato da non lasciar intuire che dietro vi siano schemi precisi. Parlo, nello specifico, di Voodoo Mama: componente essenziale nella colonna sonora che ha valso a Justin Hurwitz un Golden Globe.
La disillusione per una realtà spietata e concorrenziale è tratto caratteristico di un altro prodotto a noi ben noto sotto la firma di Chazelle: La La Land (2017). I richiami sono evidenti, specialmente nell’intento registico di operare inquadrature che riescano a mettere Nellie sullo stesso piano di Mia, per infondere caratteristiche decisamente più scabrose nella prima. È come se Babylon esasperasse le speranze disattese, già manifestate da Mia, verso un’industria del cinema che non guarda in faccia a nessuno, ponendosi in forte contrapposizione col positivismo di Sebastian che, qui, non trova alcun riscontro.
In sostanza, Babylon si rivela a tutti gli effetti un esperimento ben riuscito, capace di equilibrare efficacemente i due pesi della bilancia; da un lato, lo scetticismo verso il futuro del cinema americano (ma non solo) negli anni ‘30. Dall’altro, la frattura che porta a uno sfacciato ripudio delle regole, in un atto archetipico e assolutamente primordiale: facendo casino.
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