Da un estremo all'altro: un dibattito sul politically correct

A cura di Laura Astarita.
Intervengono A, B, C, D.

Illustrazione di Erik Drooker

CENSURA POLITICA E POLITICALLY CORRECT

In questi ultimi tempi di pandemia si è assistito ad una progressiva digitalizzazione dell'arte. Questo ha senz'altro facilitato la fruibilità, rendendola quindi più accessibile a tutti. Più visibilità ha portato dunque anche ad una maggiore esposizione alla criticabilità. Complici i movimenti #MeToo e Black Lives Matter, che si occupano di dare voce a quelle minoranze che, nella multimedialità, così come nella cultura pop, sono sempre state dipinte con "stereotipi", e trascurati nella loro caratterizzazione, la circostanza ha portato nel 2021 la polemica tra gli ordini del giorno. Avvicinare così tanto etica ed arte ha scoperchiato vasi di Pandora che per molto tempo sembravano rimasti sepolti: si torna a parlare di censura politica, politically correct, trigger warning (N.d.R.: avviso relativo alla presenza di temi potenzialmente pericolosi per un fruitore che abbia vissuto esperienze traumatiche, visto che questi temi potrebbero "riattivare" il trauma).
Su questi argomenti, quatto ragazzi e ragazze della redazione Tapioca hanno intavolato, recentemente, una discussione. L'argomento è nato dopo la pubblicazione dell'articolo di Alessandra Vita La Rai e la censura: un'ipocrisia tutta italianaIniziando col menzionare i diversi episodi di censura ai danni della comunità LGBT (la trasmissione priva delle scene gay in Brokeback Mountain e Le regole del delitto perfetto), si è poi arrivati ad interrogarsi sul fenomeno esattamente opposto: il così detto politically correct, il "buonismo".
Quando la censura può definirsi esattamente politica, e quando determinate forme di censura portano a prediligere contenuti politically correct

LA BUFERA SU BIANCANEVE E LA CANCEL CULTURE

Il motore della discussione è stato senz'altro il tanto chiacchierato caso di Biancaneve. 
La vicenda si può riassumere in questo modo: due giornaliste hanno descritto per il quotidiano californiano SFgate, dopo aver visto una giostra basata sulla fiaba di Biancaneve a Disneyland, la scena del bacio dato dal Principe Azzurro come «dato senza consenso». Queste parole sono state sufficienti a scatenare la bufera mediatica.

Per quanto la reazione possa essere esagerata, c'è da dire che definire la notizia una bufala sarebbe inesatto. In USA, molto più che in Europa, visto anche l'aumentare delle politiche di discriminazione del governo Trump, da molto tempo gli intellettuali si trovano stretti in una morsa. Questa pressa da un lato sulla necessità dell'arte di "educare" all'inclusività e dall'altro sulla censura politica imposta da un governo Repubblicano. Nel 2020, prima delle elezioni presidenziali vinte da Joe Biden, 153 intellettuali firmano, sulla rivista Harper, una lettera aperta sulla "giustizia e il dibattito aperto", nota anche col nome di Harper's List. In questa lettera, i firmatari chiedono espressamente la libertà di esprimersi, in nome dell'arte e della ricerca, sui temi "politicamente scorretti". Dal testo della lettera aperta:

«Il libero scambio di informazioni e di idee, linfa vitale di una società liberale, si restringe quotidianamente. Se da un lato ci aspettiamo questo sulla destra radicale, dall'altro la censura si sta diffondendo più ampiamente nella nostra cultura: l'intolleranza di opinioni opposte, una moda per lo svergognamento pubblico, per l'ostracismo e la tendenza a sciogliere questioni politiche complesse in una cieca certezza morale. […] Gli editori vengono licenziati per aver assegnato pezzi controversi; i libri sono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti è vietato scrivere su determinati argomenti; i professori sono indagati per aver citato certe opere letterarie a lezione; un ricercatore viene licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico revisionato da un collega; e i capi delle organizzazioni vengono espulsi per quelli che a volte sono solo errori goffi. Qualunque siano le argomentazioni intorno a ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza subire la minaccia di rappresaglie. Stiamo già pagando il prezzo di una maggiore avversione al rischio tra scrittori, artisti e giornalisti che temono per il loro sostentamento se si allontanano dal consenso, o addirittura non hanno sufficiente zelo di accordo».

Se da una parte gli intellettuali "scomodi" e gli artisti politici sono sempre esistiti, e hanno sempre consapevolmente scelto di vivere ostracizzati dalle istituzioni per perseguire le proprie idee (si pensi ad esempio a Pasolini o a García Lorca, che per le loro idee vengono tragicamente assassinati), dall'altro oggigiorno gli intellettuali sono anche più "esposti" di quanto Pasolini e García Lorca non lo fossero in passato. La diffusione del digitale e la velocità della comunicazione social genera un'occasione di discriminazione non verso certe idee "controverse", ma verso i singoli personaggi pubblici che le esprimono. Un personaggio pubblico è dunque più vulnerabile alle minacce e all'odio altrui, perché più facilmente rintracciabile. Oggi più che mai, in ogni momento, da qualsiasi parte del mondo.  

La cancel culture e questo clima di "intolleranza" verso il politically correct ha dunque provocato un generale allarmismo verso qualsiasi riferimento a fatti e personaggi che possano vagamente sembrare controversi agli occhi dei "buonisti". Ecco spiegato perché una semplice considerazione su uno spettacolo disneyano ha causato un tale scandalo. Non si tratta di una bufala, poiché le giornaliste hanno effettivamente fatto una considerazione sulla non consensualità di  Biancaneve. 
Tuttavia, si può dire che possa essersi trattato di un effetto farfalla. Il battito di una farfalla in California, una considerazione quasi innocente, ha causato in tutto il mondo un tornado mediatico. 

Lo scandalo è stato infatti una conseguenza dell'allarmismo latente verso la censura (sia dalla parte della politica dell'odio, sia dalla parte della politica della tolleranza). Questo ha portato i ragazzi della redazione Tapioca a ragionare sui limiti che si dovrebbero imporre al fenomeno, e le posizioni sono discordanti su alcuni punti, ma a parere del moderatore non contraddittorie.

Verrà in seguito trascritto il dibattito, dopo di ché si tenterà di giungere ad una conclusione.


Tratto dal film Disney Biancaneve (1937)

TRASCRIZIONE DEL DIBATTITO

A. Cosa ne pensate della storia di Biancaneve?

B. Penso che, per quanto la questione Biancaneve sia praticamente fake, la piega che sta prendendo la censura negli ultimi tempi è piuttosto allarmante. Ho letto che si sta man mano pensando di porre dei "veti" su certi film in quanto considerabili portatori di razzismo. La cancel culture esiste, soprattutto nei paesi anglosassoni, e si sta diffondendo. Per questo non mi sorprende che abbiano creduto plausibile una censura di Biancaneve. Del resto, non hanno forse censurato gli Aristogatti per razzismo? Quel film l'ho visto centinaia di volte, e, personalmente, non ci trovo assolutamente nulla di razzista. 

C. Il mio parere generale sulla Disney è che, se nei vecchi film ci sono degli sketch un po' razzisti, perché sono stati fatti in un'epoca in cui tutti erano razzisti, ammettere che quello sketch è stato un errore non mi sembra malvagio. Non toglie nulla al film, basta mettere un bollino d'avviso. Ed è quello che hanno fatto, appunto, con gli Aristogatti. Non mi risulta che, a parte l'aggiunta del trigger warning, siano state censurate delle scene in particolare. Più grave, invece, è la censura. Prendete d'esempio quel che è successo a Song of the South (N.d.R: in italiano I racconti dello zio Tom, un film del 1946 tratto dall'omonimo romanzo e mai distribuito dalla Disney dopo le accuse di revisionismo). È stato trattato dalla Disney come se non fosse mai stato realizzato. Mi chiedo: che senso ha?

B. Anche secondo me un'opera artistica, a prescindere da tutto, non dovrebbe mai essere censurata. Piuttosto, dovrebbe essere studiata, in tutte le sue implicazioni sociologiche e politiche. Tuttavia, l'idea di mettere un avviso è forse peggiore della cancellazione stessa: avvisando preventivamente lo spettatore, si rischia infatti di influenzarlo nel suo giudizio in seguito alla visione del film.

C. Personalmente, non capisco quale sia il problema.

B. Il problema è che la creatività non deve mai essere vincolata da una morale. Per quello esistono le chiese. Non è un caso che Nick Cave, anche se è un artista non necessariamente legato al mondo del giornalismo, si sia espresso in merito alla cancel culture definendola «la più infelice delle religioni»Preferisco che la scena rimanga e che non ci sia nessun avviso, al massimo discussioni dopo la visione. Sennò dovremmo mettere un trigger warning sul 95 % dei film, praticamente. 

C. Secondo me invece non è sbagliato. Anzi, per me è doveroso mettere le mani avanti e dire: non prendete i riferimenti razzisti come oro colato, erano tempi diversi. Ha senso, considerando che non sappiamo come potrebbe reagire il pubblico. Non tutti hanno familiarità con il concetto di relativismo storico.  

D. Mi intrometto facendo le veci dell'avvocato del diavolo. Prendiamo un film della Disney x, ad esempio Biancaneve. La favola è costruita secondo una morale ad oggi superata (il bacio del vero amore del principe che rappresenta la "salvezza", la libertà dalla famiglia d'origine che la donna può trovare solo nel matrimonio). Se le favole, oltre a intrattenere, servono anche a dare un insegnamento, è giusto secondo voi dare a un bambino un insegnamento retrogrado?

C. Basta con questi finali edulcorati, torniamo al bel vecchio finale con la strega che balla con le scarpette arroventate fino a morire! Scherzi a parte. Semplicemente avvisare che un film è un film, di non prenderlo come insegnamento di vita. Non tutta l'arte deve necessariamente insegnare.
Con un avviso all'inizio che spieghi il punto di vista di chi produce il film, si possono evitare i casi di censura postuma alla distribuzione. 

B. Vogliamo davvero cancellare tutte le fiabe, il 90% dei film e un buon 80% della letteratura, solo perché questi sarebbero "portatori" di una mentalità retrograda? Sarebbe una distopia da Arancia meccanica pensare all'idea che, perché si potrebbe trasmettere un insegnamento retrogrado ai bambini,  si debba non raccontare una favola o non fare vedere un film. La vita non è un film. Ed un film non è una vita.

C. Non è distopico, semplicemente nel 2021 sappiamo che determinate tematiche presenti in un film d'epoca possono turbare certe fasce di pubblico. Un film razzista, ad esempio, potrebbe pur sempre urtare la sensibilità di un afroamericano che lo guarda, anche se la schiavitù e l'apartheid sono stati aboliti. Quindi, meglio avvisare prima della visione di Via col vento che il principale personaggio di colore è una schiava accondiscendente. Meglio questo che eliminare tutte le scene nelle quali è presente Hattie McDaniel (N.d.R: attrice che interpreta Mami nel film Via col vento).

B. Il problema sta nel fatto che è semplicemente qualcosa di deliberatamente ipocrita. Ci siamo battuti affinché la censura cinematografica non ci fosse: giusto. Ora non deve esserci. Altrimenti dovremmo letteralmente mettere avvisi su ogni film perché potenzialmente offensivi. 

C. Non definirei ipocrita il tentare di informare il pubblico sulla società in cui è stato prodotto il film. Piuttosto definisco ipocrita l'atteggiamento di alcune case di produzione come Disney e Warner, che "nascondono" sotto il tappeto i film politicamente scorretti realizzati 90 anni fa, mentre poi nel 2021 continuano a perpetrare gli errori del passato. Ad esempio, sappiamo che il live action di Mulan è stato girato in una regione con dei campi di concentramento in Cina, e che nei titoli di coda del film hanno ringraziato anche l'amministrazione locale. L'attrice protagonista di quel film ha supportato i poliziotti che pestavano le persone ad Hong Kong. 

B. A prescindere dall'incoerenza delle azioni della Disney, che mette avvisi "politicamente corretti" e poi crea film finanziando i genocidi, il mio discorso sull'ipocrisia è principalmente estetico. La creatività non dovrebbe mai essere condizionata da un giudizio morale, che sia contemporaneo oppure successivo. Sicuramente va analizzata sotto paradigmi anche sociologici. Ma il condizionamento è sempre sbagliato, perché mette a repentaglio il valore artistico del film.

C. Non c'è dubbio. Tuttavia, credo che D. prima intendesse dire che le fiabe sono sempre state lette e rilette in base al periodo storico in cui vengono proposte. Ad esempio, le fiabe un tempo erano molto più cruente e sono state un filo edulcorate, appunto, per i bambini più sensibili di oggi. Non credo perciò che censureranno mai Biancaneve. Al tempo stesso, non vedo nulla di sbagliato nel fatto che, un giorno, una madre possa raccontare a sua figlia una storia con un finale diverso perché ritiene quello tradizionale poco affine alla mentalità di questo secolo. Quante versioni di Cenerentola esistono, ad esempio, nel cinema? E quante di questi sono rivisitazioni della versione disneyana? Secondo me, censurare il film di Biancaneve è una soluzione che neanche è stata considerata, né dalla Disney né da SFgate: è solo un dibattito sulla consensualità di un bacio, e di quanto il modello di "vero amore" con cui siamo cresciuti ci abbia influenzato. È un dibattito, nulla più. Nessuno censurerà un film d'animazione per questo.

B. Ma siamo sicuri che la mentalità di questo secolo sia quella giusta? Io mi pongo molti dubbi e su questo non ho grandi risposte. Mi sembra una mentalità igienica, ma non migliore.
Che la notizia della censura di Biancaneve sia un fake ormai è chiaro. Ma che la cancel culture esista ed alimenti un'enorme accumulo di ipocrisia è altrettanto certo.
Anche e soprattutto perché un film o un qualsiasi racconto deve essere contraddittorio, o avere una qualche forma di contraddittorietà interne per funzionare, altrimenti è solo solletico per i sensi. 

A. Sono d'accordo sul fatto che il politically correct stia sfuggendo di mano. Altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di scrivere una lettera aperta. Sostenere critiche insulse per ogni singola cosa sta diventando insostenibile. Si sta attuando una vera e propria discriminazione verso chi discrimina (ai fini artistici), e questo è a parer mio contraddittorio, oltre che estenuante. Questi intellettuali che sentono il dovere di reclamare la propria libertà di espressione, sono poi forse diversi da coloro che subiscono censura?

C. In questo momento storico la mentalità è questa, e l'arte si adatta alla morale come si è adattata ad ogni epoca. Contrastare l'ondata è inutile. Che sia giusto o che sia sbagliato lo scopriremo solo andando avanti. Questo non vuol dire che bisogna censurare un'opera d'arte, perché ogni opera d'arte è frutto della propria epoca e la sensibilità delle persone cambia a seconda del periodo storico in cui vivono. I film sono fonti di documentazione storica. Tuttavia, mi sembra una buona soluzione combattere la censura con l'informazione, e l'inadeguatezza politica con la proposta di nuove versioni più adeguate ai tempi rispetto a quella originale.




CONSIDERAZIONI FINALI

Quando si parla di cancel culture, la parola chiave è ipocrisia. Sia dalla parte di chi è totalmente contrario ad ogni genere di condizionamento sulle opere d'arte, sia dalla parte di chi ammette che si possono giungere a compromessi politicamente corretti, la parola chiave che risulta da questo dibattito è la stessa.

C. distingue cancellazione e censura dall'avviso di trigger warning sui vecchi film. Trova comunque ipocrita, nel caso specifico della Disney, che i film di oggi vengano prodotti in modo non esattamente politically correct. Tuttavia, ritiene che un atteggiamento politicamente corretto potrebbe facilitare la fruizione di alcuni vecchi film condannati, altrimenti, alla cancellazione. 

B. ritiene, al contrario, che l'inserzione di avvisi e bollini d'avviso possa causare l'effetto opposto, creando "cattiva pubblicità" sul prodotto e disincentivando l'interesse verso il film. Per B., trigger warning, cancellazione e censura non sono dunque la stessa cosa ma ottengono lo stesso effetto: "correggere" il messaggio di un film.

D. si domanda se il politicamente corretto non corrisponda, piuttosto, all'esigenza di un cambiamento.

A. paragona la morale del politically correct alla censura, poiché, oggigiorno, sta diventando una vera e propria limitazione alla personale libertà d'espressione. 

Il timore che il politicamente corretto possa limitare la libertà d'espressione è effettivamente ciò che ha spinto gli intellettuali a firmare l'Harper's List. Tuttavia, mi chiedo: è giusto concedere libertà d'espressione incondizionata? La libertà, come concetto, in ogni altro ambito della nostra vita civile, viene, normalmente, limitata dalle leggi. Martin Luther King, che ha lottato per i diritti civili, scriveva: «La mia libertà finisce dove comincia la vostra». Perché dunque dovremmo concedere la libertà ad un film di insultare un'etnia o di esprimere idee politiche scorrette, se queste idee offendono la possibilità di uno spettatore di essere libero? Se la tua idea, la tua arte, limita la libertà del prossimo, dovresti davvero essere libero di esprimerla?

Siamo talmente abituati alla libertà che ci siamo dimenticati del suo prezzo: la tolleranza. La tolleranza verso il prossimo, il compromesso con chi è diverso da noi e il rispetto verso le idee altrui a partire dal momento stesso in cui vengono espresse. E questo vale per un estremo, come vale per l'altro. Senza esclusioni. Senza estremi.

Concludo con una frase di Voltaire, filosofo ed intellettuale che, in pieno Illuminismo, ha rappresentato gli albori della prima democrazia francese. Spero così di ricordare ai lettori di questo articolo su cosa si basa, per principio, il concetto di libertà d'espressione: 

«Non mi piace ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo».

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