Nomadland: tornare a casa

Di Silvia Strambi

Frances McDormand (Fern) in Nomadland

"Home, is it just a word? Or is it something that you carry within you?"
(Morrisey, Home Is A Question Mark)
 
Cinema Lumière di Bologna. In questo luogo che ho imparato ad amare profondamente, ho visto l'ultimo film prima della chiusura delle sale. Era il 6 ottobre 2020, il film era la versione restaurata di The Elephant Man. Ero con un'amica. Siamo rimaste per due ore, mascherine FFP2 a coprire naso e bocca, a fissare lo schermo, ipnotizzate dalle interpretazioni di Anthony Hopkins (recentemente premio Oscar per il migliore attore protagonista) e John Hurt, dalla regia di Lynch. Alla fine abbiamo anche pianto, appena un po'. 
Per mesi ho guardato nostalgicamente la foto scattata quel giorno, il mio biglietto davanti all'evocativo poster con sopra la "mostruosa" figura di Hurt completamente coperta. Mi sono chiesta a lungo quando mi sarebbe stata restituita quell'emozione pura strappatami così violentemente: la magia della sala.

3 maggio 2021: dopo quasi sette mesi di lontananza torno (finalmente) al cinema.
Sono le 10:30 di un lunedì mattina. Solo il giorno prima sono tornata a Bologna, dopo un soggiorno a casa durato forzatamente tre mesi. La mia fiducia iniziale nel trovare una poltrona vacilla quando all'ingresso mi dicono che "forse i posti sono esauriti". Prego che non sia così.
Al momento il Lumiére trasmette solo due film, il vincitore di tre premi Oscar Nomadland e il restauro del film cult In The Mood for Love, del regista Wong Kar Wai. Eppure l'affluenza negli scorsi giorni è stata comunque molto alta, tanto che noto con piacere che lo spettacolo delle 18:45 di Nomadland è annunciato come sold out.
Alla cassa mi rassicurano, ci sono ancora posti sia per l'uno sia per l'altro film. Decido di buttarmi su Nomadland. In The Mood for Love sarà certamente la mia prossima visione.

Entro in sala. Il buio mi accoglie. Non riesco a vedere quante persone siamo, ma ne percepisco la presenza attorno a me. È una sensazione peculiare, sapere di stare per condividere le stesse emozioni con persone che non si vedranno mai più nella propria vita e di cui non si saprà più nulla, se non che per un paio di ore avete abitato lo stesso spazio vitale e forse gli stessi pensieri hanno attraversato la vostra mente.
Le luci si spengono. Buio in sala. Silenzio. Il film comincia.
Per due ore, la magia dei Lumiére rivive, 126 anni dopo la propria nascita, in quel cinema che dai due fratelli registi ha preso il nome. E io non posso fare a meno di pensare a quanto sono fortunata ad essere lì per goderne.

Foto di Silvia Strambi

TRAMA

Nomadland è basato sul libro Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century di Jessica Bruder. È la storia di Fern (Frances McDormand), una donna nomade. Fern ha perso sia suo marito sia la casa durante la Grande Recessione (la crisi economica mondiale avvenuta tra 2007 e 2013). La città in cui abitava, Empire, è ormai divenuta una città fantasma. Messa alle strette Fern ha deciso di "trasferirsi" all'interno di un van con cui attraversa la nazione, vivendo in condizioni minimali e tenendosi in contatto con la natura. 
Durante il suo viaggio incontra diverse persone che, come lei, hanno deciso di abbandonare la società in favore della vita on the road. Il confronto e l'amicizia con questi personaggi la porterà ad una nuova consapevolezza di sé stessa, del proprio lutto e del proprio rapporto con la società.

COMMENTO (CON SPOILER) DI NOMADLAND

Partiamo subito dal dire cosa Nomadland non è. Nomadland non è un film fondato su una storia forte, Nomadland non è un film dal ritmo serrato. Nonostante i notevoli aspetti tecnici, Nomadland è un film in cui la vita quotidiana ha il sopravvento sui drammi personali e in cui la parola d'ordine è "semplicità". 

La pellicola si basa principalmente sui peregrinaggi di Fern nel paese, sui paesaggi che incontra e sulle persone con cui la sua vicenda personale si intreccia. 

I momenti in cui il film brilla di più sono di certo quelli delle riprese ambientali. Chloé Zhao, regista del film, riprende la natura in tutta la sua maestosità incontaminata dall'uomo, proponendo diversi panorami. Passiamo dalle distese innevate del Nevada durante il rigido inverno al caldo deserto dell'Arizona, per poi venire trasportati nel roccioso Badlands National Park, in Sud Dakota. In questi ambienti Frances McDormand si perde, diventando un'osservatrice assieme a noi e assieme all'occhio della macchina da presa. Le uniche luci necessarie sono quelle naturali, offerte dall'illuminazione solare che modula l'immagine e i suoi colori.
La bravura tecnica della regista in questi momenti è innegabile. La scena in cui Fern si sposta attraverso il campo dei nomadi, nel deserto dell'Arizona, è realizzata in un unico piano sequenza, dandoci l'impressione di muoverci con lei. 
Vedere queste scene sul grande schermo, poter godere in alta definizione di ogni picco roccioso, di ogni filo d'erba, di ogni raggio di sole, mi ha ricordato che la missione del cinema come arte è quella di far vedere, di rendere visibile l'invisibile, di restituire immagini altrimenti inaccessibili. E per un'ora e quaranta mi sono completamente abbandonata a questa illusione del reale, mi sono lasciata cullare dalle immagini della natura. 
In un anno in cui gran parte della nostra vita è stata concentrata tra le quattro mura domestiche, non c'è nulla di meglio di poter guardare ciò che ci è ormai precluso, nessun piacere maggiore del semplice piacere voyeuristico. 

Badlands National Park, 
foto di Bernard Spragg 

Ma le bellezze naturali sono solo una parte del "cast" che compone questo film.
Forse sul solco del Neorealismo, la regista ha deciso di inserire all'interno di Nomadland veri nomadi. 
Le loro interpretazioni, molto naturali, non stonano affatto con quelle di Frances McDormand e David Strathairn, che sono probabilmente gli unici due attori di professione (difficile verificare caso per caso, con così tante persone coinvolte). Anzi, la presenza dei nomadi dà alla pellicola un maggiore senso di genuinità: è evidente che ciò che stanno raccontando a Fern (e di rimando anche a noi) sono esperienze di vita vissuta, che affondano le loro radici negli anni trascorsi in viaggio. 
Certo, alcune libertà sono state prese, ma spesso anche queste libertà hanno origine nella vita dei nomadi. Ad esempio, uno dei personaggi principali del cast, Swankie, rivela di avere un tumore. L'attrice che la interpreta in realtà non è malata, ma il suo ex marito è effettivamente morto a causa di un cancro al cervello (1).

Oltre a raccontare le loro esperienze personali, i nomadi si fanno anche portatori di quelli che sono gli insegnamenti fondamentali della pellicola. Chloé Zao analizza da "straniera" il sistema economico americano. Una scena in particolare, in cui la protagonista torna in società, diventa occasione di critica. Due agenti immobiliari commentano la Grande Recessione e come avrebbero dovuto comprare in quel periodo per poi rivendere ad alto prezzo. Un discorso fatto con grande leggerezza davanti a Fern, che per colpa di quella crisi ha perso tutto, non solo la sua casa ma anche suo marito e la sua comunità. 
Il nomadismo rappresenta uno stile di vita in primo luogo, uno stile di vita a volte scelto, a volte "capitato", ma in ogni caso uno stile di vita che si oppone allo status quo americano. Ma la regista non fa l'errore di romanticizzarlo eccessivamente, mostrandoci le difficoltà quotidiane affrontate da Fern e dagli altri personaggi. Non ci vengono risparmiati i dettagli più scomodi dell'esperienza, come il freddo, la gestione dei propri bisogni...

Come scrisse un altro famoso viaggiatore on the road, Christopher McCandless, 'La felicità è vera soltanto se condivisa'.
Di certo uno degli elementi fondanti dell'esperienza nomadica raccontata dalla Zao è l'idea di comunità. I personaggi di Nomadland sono uniti da un senso di appartenenza a uno stesso sistema, si aiutano vicendevolmente, accolgono Fern senza riserve. I nomadi formano una famiglia al di fuori della famiglia. 
Questo concetto viene ben riassunto da uno dei personaggi del film, Bob Wells, un conosciuto vandweller ('abitante di furgoni') americano che racconta la propria esperienza sul web. Nel suo dialogo con Fern, l'uomo dice: 'Una delle cose che amo di più di questa vita, è che non c'è un addio definitivo. Ho conosciuto centinaia di persone qui. E io non dico mai addio per sempre, dico solo: ci vediamo lungo la strada.'
Una frase dal grande impatto che viene ripresa anche nei titoli di coda, sigillando così il significato del film.

Insomma, Nomadland è, prima che un film reportage o documentario, la storia di una famiglia lontana dalla famiglia, una casa lontana da casa. Un'esperienza che credo tutti noi abbiamo vissuto, almeno una volta nella vita. Forse la casa lontana da casa per alcuni è costituita da un gruppo di amici, per altri da una passione coltivata. Per me nello specifico, la mia "casa lontana da casa" è da alcuni anni il cinema. 
E rientrare in sala per vedere questo film mi ha ricordato quanto sia bello, ogni tanto, tornare a casa.

Fonti:
(1) https://www.latimes.com/entertainment-arts/movies/story/2021-02-25/nomadland-hulu-real-life-nomads

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