Cristina Kristal Rizzo e l'eco del reale. Festival di Danza Urbana 2021

 Di Laura Astarita


Foto: Giulia Casamenti

A Bologna, dal 1 al 5 settembre, si è tenuto il Festival di Danza Urbana. La Danza Urbana è una disciplina che nasce nel Novecento, e non ha molto a che fare con la Street dance o la danza di strada. La Danza Urbana nasce per valorizzare un contesto: questo è spesso sinonimo del concetto di site-specific o site-sympathetic, come nel caso della danza verticale di Wanda Moretti o la performance Moto Celeste di Leonardo Delogu. Spesso, però, danza urbana vuol dire anche puntare la lente sulla non convenzionalità dello spazio, sulla sua duplice natura della città, in quanto spazio della finzione scenica e spazio quotidiano della realtà.

La prima edizione del Festival risale al 1997. La rassegna nasce con l'intenzione di interrogarsi sulle forme di connessione che si possono creare tra spazio e performer. Questo, inoltre, per dare valore alla location in sé e alla collettività che la abita. Nel 1997 siamo però ancora nel Novecento. Il Novecento, ad oggi, è ormai finito da 21 anni, ed è ora di iniziare a pensare alla danza del Duemila.

La volontà di correre incontro al presente, l'ho vista sicuramente nello spettacolo Echoes, coreografato da Cristina Kristal Rizzo e danzato dalla compagnia TIR Danza. 

A Bologna, lo spettacolo è andato in scena allo Spazio Bianco del DumBO: un ex complesso industriale, che ora viene usato per mostre d'arte, spettacoli ed eventi culturali. Il DumBO quest'anno è stato infatti un po' il quartier generale di questo Festival che in realtà diffonde le sue diramazioni un po' ovunque, nella città di Bologna.

Il capannone dello Spazio Bianco in effetti mi sembra una location perfetta per uno spettacolo di danza: spoglio, illuminato con luce naturale, pavimento liscio ma non scivoloso, in modo da garantire la giusta aderenza. E non capisco, in effetti, come si possa definire danza urbana una performance che ha luogo in uno spazio "teatrale" diventato, per i bolognesi, tutto sommato, convenzionale. Ricevo la risposta alla mia tacita inchiesta una volta giunta sul luogo della rappresentazione, dove mi hanno chiesto di firmare una liberatoria sull'immagine: Potresti essere filmata nel corso della performance. Penso subito ad una scelta degli organizzatori del Festival: quella di creare uno spettacolo in modalità "blended" è una soluzione che si usa spesso in questo periodo in cui la capienza è costretta a ridursi al 50% (il Roma Fringe Festival aveva, ad esempio, adoperato questa soluzione per il periodo in cui le sale teatrali erano rimaste chiuse). Mi smontano subito l'ipotesi, però: le riprese faranno parte a tutti gli effetti della performance. Non c'entrano gli organizzatori: la diretta streaming fa parte del lavoro della coreografa. 

Ci vengono quindi fornite le istruzioni per seguire la diretta streaming nel momento stesso in cui questa veniva performata dal vivo davanti ai nostri occhi. I danzatori (cinque, in scena, tra cui anche la stessa coreografa) si esibiscono infatti in favore di camera: allo spettatore è permesso scegliere tra un primo piano digitale e una figura intera reale. Le espressioni, gli occhi, sono preclusi al pubblico reale, così come alcune parole sussurrate che non possiamo ascoltare: possiamo filtrare questa dimensione della performance solo dal telefono, e anche in leggero ritardo (colpa della connessione streaming, che non può mai essere perfettamente simultanea). Lo spettatore si rende dunque bifocale: la coreografa dà la possibilità di far scegliere a chi guarda se essere presente nel qui e ora, o nel qui e poco dopo

La performance inizia alle 18. So che hanno un secondo turno alle 19. I danzatori si muovono come dentro un flusso, la danza ha momenti di tensione e di rilassamento reiteranti. Inoltre, è evidente il lavoro di connessione presente con il suolo. Non è una coreografia che presenta troppi salti, troppe acrobazie aeree: si limita a sfruttare tutti gli impulsi che vengono dati dal contatto con la terra. Lo spazio viene sfruttato interamente: non è raro che i danzatori scelgano di danzare "fuori campo", tra il pubblico, o dietro la camera stessa, quasi a volersi "schernire" di quello che è stato il punto di vista privilegiato fino a quel momento. Chiunque stesse a guardare lo spettacolo contemporaneamente in streaming e dal vivo, avrebbe avuto una sensazione di ritardo e di ritorno, di continua e costante doppiezza non simultanea. Da qui, forse, il titolo dello spettacolo: Echoes.

Passa un'ora e le maschere ci chiedono di alzarci. I danzatori però sono ancora in scena, e stanno danzando. Ci alziamo, confusi, e usciamo dallo Spazio Bianco. Una volta fuori dal DumBO, torno sulla diretta streaming (che, personalmente, ho scelto di non calcolare prima della fine dello spettacolo in sé) e vedo che continuano a danzare anche ora che entra il pubblico del secondo turno. Mi manca il qui e ora, e perfino la possibilità strana di un qui e poco dopo: questo poco più in là e poco dopo non mi soddisfa per niente. Perciò torno a casa con l'amaro in bocca e un applauso non fatto, esattamente come mi accadeva, in tempi di quarantena, con gli spettacoli in streaming.


Foto: Silvia Baldo

Nonostante l'esperienza da spettatrice bifocale non mi abbia fatta impazzire, devo dire che lo spettacolo, nel suo contestualizzarsi come "danza urbana", mi ha offerto uno spunto importante di riflessione: cos'è lo spazio urbano, nel 2021? Non è raro che si usino i dispositivi nelle nuove performance, ma è raro l'arrivare ad interrogarsi su quanto il nostro essere spettatori del mondo venga filtrato dal nostro telefono, e di come questo spesso sia preferito (o imposto dalle circostanze) alla vita reale. Si preferisce così l'eco del reale alla vita piena e integra. Di questo l'arte dovrebbe tenerne conto.  Lo spazio urbano è anche uno spazio sociale, e la socialità viene mediata anche grazie ai dispositivi. Oggi giorno concetti come civiltà e inciviltà, legale o illegale, sono presenti anche sui social. Parte della fruizione di siti pubblici viene affidata ai dispositivi: le poste, la prenotazione dei biglietti per eventi culturali, l'università. I nostri stessi social paiono un riflesso del nostro curriculum vitae, della nostra vita, del nostro essere: lo specchio di Narciso, insomma,

Cristina Kristal Rizzo trascende il concetto di spazio reale e concretizza lo spazio virtuale, tentando con la sua danza di andare incontro a questo Duemila. Sarà così il teatro di questo secolo? E se sarà così, ci piacerà? Dovremo continuare a fare passi indietro verso il Novecento, per ritrovare un linguaggio teatrale che possa piacerci? Oppure sarà sufficiente attingere da questo secolo, dalle sue suggestioni e le sue contraddizioni? 

Lo scopriremo vivendo.

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