E Mefistofele si accese una sigaretta davanti alla Venere di Botticelli. Una riflessione intorno allo sbattezzo. Parte 2

 Di Federico Rossato


Parte 1: Leggi l'introduzione e gli argomenti spirituali


L’argomento politico prende piede proprio dove termina quello spiritualistico. Come presentato, lo sbattezzo ha una natura squisitamente politica rispetto alla Chiesa, dunque è doveroso approfondire l’argomento per cogliere i limiti dell’istituzione in questione. In particolare, verranno posti due dilemmi: è legale il battesimo? È conciliabile l’etica cristiana cattolica della sacralità della vita con un’etica laica fondata, invece, sulla qualità della vita?

Sandro Botticelli, Storie di Lucrezia, 1500-1504, tempera su tavola,  80×130 cm, Isabella Stewart Gardner Museum, Boston

Rispondendo alla prima domanda: l’articolo 30 della Costituzione della Repubblica Italiana recita «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli […]». Tale diritto, nonché dovere, comprende la ragionevole libertà dei genitori di educare i figli secondo la loro concezione del mondo (a condizione, ovviamente, che questa non sia in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana. Citando una frase diventata iconica del film Porco Rosso del maestro Hayao Miyazaki: «Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale») ma l’imposizione, in tenera età, di un vincolo di appartenenza a una confessione religiosa, per tutta la vita, è probabilmente al di fuori della concezione costituzionale del diritto-dovere di «istruire ed educare i figli». Emerge, ancora una volta, il già citato problema di transgenerazionalità. 

Giusto per puntualizzare meglio il problema, il Codice Canonico stabilisce che «il bambino di genitori cattolici e persino di non cattolici, in pericolo di morte è battezzato lecitamente anche contro la volontà dei genitori». Ricordando quanto sia importante il diritto-dovere sancito dall’art. 30 della Costituzione, parrebbe un filo arduo fare convivere tale norma del Codice Canonico con i diritti e le libertà costituzionali, almeno in paese che si voglia definire come laico. Il battesimo, come esposto nell’argomento spiritualistico, da un punto di vista teologico «incorpora alla Chiesa», ma anche da un punto di vista esterno all’ordinamento della Chiesa, esso ha una sua importanza in quanto adesione politica alla Chiesa Cattolica.

Il diritto di libertà religiosa, il quale va garantendo la professione della Fede, copre, insieme al diritto d’esprimere il proprio pensiero, lo spazio dedicato della, se non votato alla, libertà di coscienza. Un interesse, questo, che non è espressamente menzionato nella Costituzione, ma che è soddisfatto tutte le volte in cui sia giuridicamente escluso che al singolo possa essere imposto il compimento di atti o l’espressione di concetti in contrasto con il proprio intimo sentire, poiché sarebbe criminale e ripugnante l’idea di prendere per vero ciò che un uomo potrebbe affermare sotto lo scacco di una ripercussione, sia essa fisica, psicologica, sociale, spirituale o di qualunque altra natura. 

Dunque, tutte le puntualizzazioni espresse portano inevitabilmente a ricercare la ragione per cui la legge impedisca (N.d.C. giustamente) d’iscrivere i propri figli a un partito politico, a un sindacato o a un’associazione a carattere filosofico (N.d.C. luoghi terrificanti pieni di lugubre persone pronte a tutto in nome della verità, qualunque cosa essa sia) e consenta l’imposizione alla propria ignara prole dell’adesione a una confessione religiosa, attraverso il rituale battesimale. Di qui nasce l’esigenza dello “sbattezzo” come atto politico: la necessità, cioè, di non essere più considerati appartenenti alla Chiesa Cattolica per le convinzioni maturate una volta superato lo stato di minorità. Citando Immanuel Kant: «Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!» (1). Conseguentemente da ciò, è doveroso, nonché giusto, esercitare il proprio intelletto per richiedere la modifica nei registri dei battezzati.

Per rendere ancora meglio la natura politica, quasi socialmente coercitiva, del battesimo, basterebbe citare la differenza con la Germania, dove una legge del 1919 (confermata dal concordato del 1933, anno all’insegna della locuzione mala tempora currunt) impone alle religioni di censire i propri membri sulla base delle imposte da essi versate in favore della confessione. Se non si volesse pagare questa imposta, allora sarebbe necessaria una dichiarazione apposita con la quale si è automaticamente espulsi dalla Chiesa, ovviamente da intendersi come istituzione politica.

Il fatto è che con quest’atto, il cittadino, il quale dev’essere necessariamente maggiorenne per avere piena responsabilità della propria scelta, non paga più le imposte suddette, ma, allo stesso tempo, è considerato estraneo alla Chiesa cattolica. In parole povere: se si è battezzati e c’è interesse a rimanere tali in termini politici, si è obbligati a pagare l’imposta alla propria chiesa di riferimento. Infatti la dichiarazione ufficiale di uscita dalla Chiesa, la quale viene prodotta in appositi uffici, è, per essa, una vera e propria apostasia. Nei fatti, per la Chiesa Cattolica, il rifiuto di pagare equivale in sostanza a un disconoscimento della Chiesa e della religione cattolica stessa, dunque a una vera apostasia, con tutte le conseguenze che l’ordinamento canonico vi riconduce, il che è abbastanza tragicomico, pensando a quanto descritto nell’argomento spiritualistico. Se si vuole restare cattolici a tutti gli effetti, bisogna aprire cuore e portafogli… forse più il portafogli. Quindi, in Germania, è presente uno sbattezzo formale e burocratico, il quale, però, si basa su presupposti sociali e normativi ben diversi da quello che esiste in Italia, paese di pizza, pasta, mandolino, Berlusconi e misteriosa ambiguità quando si parla di Chiesa. 

La Passione di Cristo, dir Mel Gibson, 2004.

Questo perché la laicità dello stato, principio fondamentale e mai abbastanza rimarcato, viene rispettata sia de iure che de facto, a differenza dell’Italia dove la sovranità, feticcio ossessivo sciupato dalle troppe bocche che l’hanno masticato malamente, è tale solo fintantoché il Vaticano non chiama dal balcone per l’ora del pranzo. Questo per lo stretto legame che viene fatto correre tra morale e politica, il quale riallaccia in un unicum tutto ciò che il credente dovrebbe accettare acriticamente, tra aberranti ipocrisie e spaventose posizioni retrograde, soddisfando quella sete di risposte che attanaglia l’uomo. L’individuo, infatti, ha un bisogno disperato di dare una risposta alla domanda intorno al senso della vita, poiché scalpita nella ricerca di qualcosa che lo faccia spegnere docilmente nella notte di Dylan Thomas. Conseguentemente da ciò, la morale risponde al bisogno di senso della vita sociale, dunque si trasmuta involontariamente, o meno, nell’ossatura del sistema politico. 

Toccare la politica della Chiesa significa metterne in discussione la morale e viceversa, il tutto sotto l’egida della dottrina. La tesi più ricorrente in difesa di questa chimera concettuale è la seguente, espressa da Fëdor Dostoevskij: «Senza Dio, senza vita futura? Dunque, sarebbe tutto permesso, allora adesso si potrebbe fare tutto?» (2). Questa posizione squisitamente kantiana sottolinea come, senza Dio, la metafisica ed un mondo ultraterreno, la moralità si dissolverebbe come un respiro su uno specchio, facendo crollare ogni valore e certezza. In soldoni, senza una religione non ci sarebbe una morale e senza essa non ci sarebbe modo di distinguere un pio amante dei cagnolini da un Amon Göth. Attenzione, però, che con “religione” non s’intende una qualsiasi risposta teleologica e/o escatologica (N.d.C. ovvero risposte che presentano un fine ultimo e/o una prospettiva oltre la vita), poiché se così fosse sarebbe impossibile una qualsiasi definizione alternativa, tra cui quella d’ateismo.

Una religione deve includere necessariamente in sé due punti fondamentali: un ente trascendente la realtà naturale ed un mondo spirituale, eterno ed imperituro (N.d.C. quindi atemporale, poiché l’eternità implica l’essere fuori dal tempo, non avendo né un inizio né una fine, ed una stabilità, essendo imperituro e quindi non soggetto a cambiamenti che lo andrebbero ad alterare). Questo per superare i limiti imposti dalla mortalità e fare in modo che ciò che risiede oltre i Porti Grigi della Terra di Mezzo prescinda dalle coordinate spazio-temporali della materia e dalla dimensione culturale in cui si diffonde. La posizione di un ateo o di un agnostico, sul tema, si riassume in uno scambio di battute geniali di Apologia di Alexi Kaye Campbell: «Non hai una morale? Cos’è che ti fa alzare la mattina dal letto?» «Normalmente, la prostata».

La tesi di Dostoevskij, invece, può essere letta in due modi: una motivazionale ed una teorica. Il punto della prima interpretazione risiede nell’idea che, senza una morale, le persone non avrebbero una motivazione psicologica che le spinga a rispettare le norme e valori etici. Se non ci fosse, dunque, una solida credenza in una forma di vita ultraterrena, di qualunque forma essa sia, verrebbe meno la paura di una sanzione eterna o l’attesa di un premio per una vita virtuosa.

In sintesi, la morale si ridurrebbe ad essere uno strumento di marketing della società civile. Questo tipo di motivazione, però, non ha nulla a che fare con la moralità propriamente intesa, poiché l’etica presuppone una motivazione disinteressata come meccanismo fondante dell’azione: colui che agisce una data azione farebbe la cosa eticamente giusta perché è tale aprioristicamente, senza bisogno di rinforzi esterni di varia natura. La moralità dovrebbe fornire una motivazione a prescindere dalla credenza in questa o quell’altra prospettiva ultraterrena, attraverso pressioni psicologico-sociali che dipendono esclusivamente dal contesto storico-geografico-sociale in cui si sviluppano.

Fonte: Toscana Oggi

Il punto della seconda interpretazione, invece, è più intellettualmente affascinante, poiché se Dio non esistesse, allora tutto sarebbe permesso, poiché l’uomo non riuscirebbe più a conoscere la norma morale ed il suo contenuto. Il problema, in questo caso più macchinosamente intrigante, consiste nel comprendere quale sia la norma morale da seguire. Chi sostiene che il giusto sia tale perché voluto da una o più entità trascendenti assume una posizione volontarista, ovvero una posizione essenzialmente claudicante, difettosa ed inaccettabile. Essa infatti preclude qualsivoglia di giustificazione razionale dell’azione in questione: se un precetto è giusto solo perché è comandato, allora è esclusa la possibilità di richiedere ulteriori ragioni a giustificazione di quel dato comando, aprendo i portoni ad una forma di cieco dogmatismo, cosa sicuramente non auspicabile da nessuno.

Se invece si sostenesse che Dio comandi qualcosa perché è giusto, allora la giustizia potrebbe essere conosciuta indipendentemente dalla religione e dalla credenza di una divinità trascendente. La conoscenza dei principi morali non richiederebbe la credenza in un ente trascendente e, conseguentemente, nella moralità si potrebbe conoscere ciò che è giusto ragionando escludendo Dio dall’equazione, ripulendo il foglio ed avendo una maggiore chiarezza del quadro d’insieme. Questo modo d’impostare il discorso favorisce la formazione di un atteggiamento critico, il quale sta e dovrebbe sempre stare alla base della moralità, conseguentemente della politica. L’etica prescinde da qualsiasi desiderio della religione. 

Attualmente si sta formando, attraverso piccoli passi via via sempre più sicuri, una nuova etica secolarizzata, la quale pone al centro dell’attenzione la qualità della vita, anziché la sua sacralità, qualunque cosa ciò significhi in termini analitici. Se la moralità, sul piano sociale, è l’analogo della risposta alla domanda intorno al senso della vita, allora la nascita di una nuova etica equivale ad un nuovo orientamento del vivere sociale, poiché il valore andrebbe a corrispondere all’eguaglianza tra gli individui ed il massimo di libertà possibile per consentire l’autodeterminazione sulla propria persona. La domanda, dunque, si sposta sul chiedersi se quello ricercato sia un senso della vita o un senso nella vita.

Prima di provare a scalfire vagamente l’argomento come un pigro gatto che sposta delle mosche in un assolato pomeriggio d’agosto, è necessario dare una definizione del concetto di “scopo”. È possibile individuare, infatti, due significati principali del termine, ovvero un uso intenzionale di “scopo”, quando questi viene attribuito alle persone e alle loro azioni; oppure un uso strumentale quando viene attribuito agli strumenti costruiti dall’uomo per indicare le caratteristiche funzionali di un dato oggetto. La persona può stabilire degli scopi nel primo significato, ma non ha alcun tipo di potere sul secondo. La scienza, ad oggi, non ha apportato modifiche o svalutazioni in questi termini, ma ha solo sottolineato che l’estensione dell’uso strumentale agli eventi naturali è metaforica e avviene sulla base di una visione antropomorfica che ascrive intenzioni e/o scopi alla Natura.

Ora, tutti hanno un loro specifico ruolo secondo un grandioso progetto provvidenziale e la consapevolezza di aver ricevuto tale posto parrebbe bastare per fornire il senso della vita. Citando “Through Heaven’s Eyes” de Il principe d’Egitto

«So how do you judge what a man is worth

By what he builds or buys?

You can never see with your eyes on earth

Look through heaven's eyes» (3)

L’uomo sta bene quando è nel proprio gruppo, conseguentemente il suo essere zoon politikòn (N.d.C. “animale sociale”) lo porta ad imitare per mimesi ciò che fanno gli altri. Si può dire, dunque, che il “senso della vita” consista in una costruzione sociale, derivante dall’interazione tra persone capaci d’esercitare la propria capacità di ricevere ed attribuire valori. Sarebbe, però, più corretto che l’uomo ricerchi il senso nella vita, poiché la vita, di per sé, non rivela alcuno scopo intenzionale, ma in essa ci sono scopi perché creati dalle persone. In generale, dunque, il senso della vita dipende dagli individui che si prefiggono obiettivi corroborati da determinati contesti sociali, dunque è una costruzione psicologica-sociale.

Oggi si sta iniziando a gettare le basi, ammesso non siano già state gettate e si debba rendersene ancora conto, per la nascita di un’etica come istituzione della vita autonoma, tesa a favorire la libertà individuale ed un corrispondente, nonché adeguato, livello di benessere. Ci sono, dunque, almeno due forti valori condivisi, comuni e che uniscono la società: il rispetto della libertà e dell’autodeterminazione. Questi portano avanti, come vessilli, il primato del concetto di autorealizzazione, ovvero il cardine di un’etica improntata alla qualità della vita.

Gustave Dorè, Illustrazioni della Divina Commedia

Tutto questo lunghissimo discorso per cosa, dunque? Essenzialmente per spezzare una lancia a favore dello sbattezzo, ripulendo un po’ la discussione da tutto quel rumore che ostruiva una visione più chiara della questione. Questo perché nel corso del tempo sono nati miti e leggende intorno a quest’atto che, come presentato, alla fine è molto meno agghiacciante di quanto non appaia. La propria Fede, così come un determinato tipo di morale tradizionalmente legata ad essa, è potenzialmente fatta salva ed esiste la possibilità di distaccarsi da scelte barbariche di un’istituzione che ha un disperato bisogno di rinnovamento. Storicamente, queste proposte non rimangono che eresie isolate che, nel migliore dei casi, sopravvivono come resistenza critica silenziosa o, nel peggiore dei casi, svaniscono con la morte di alcune figure rappresentative, a differenza della Chiesa che assume a motto «Dinanzi a me non fur cose create, // Se non eterne, ed io eterna duro» (4)

Nonostante questa possibilità che si staglia nel futuro come l’ombra del patibolo, rimane la bontà del punto evidenziato lungo tutto questo breve articoletto di divulgazione. Sopravvive quella necessità d’allontanarsi da un’istituzione umana, troppo umana, per poter accettare un nuovo tipo di società che scinde la spiritualità dalla politica, relegando la prima alla propria intima sensibilità e sfruttando la seconda per garantire la prima.
Battersi per l’emancipazione dell’individuo dalle spire della Chiesa, garantendo allo stesso tempo una laicità de facto al proprio paese è quanto di più semplice e complesso parrebbe esserci, creando un caleidoscopio apparentemente paradossale. Orientarsi in questo labirinto di specchi potrebbe parere quasi futile, considerando l’enorme probabilità di sbattere ripetutamente il naso contro una sequenza pressoché infinita di riflessi, ma così non è, poiché l’inganno del diavolo sta nello scoraggiare l’uomo fino a renderlo abbastanza indolente da poterlo lasciare in un limbo, tra la santità dei virtuosi e la demoniaca curiosità dei peccatori. Dopotutto, è parola ispirata da Dio che «Nel mondo io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (5). Quanto di divertente, però, è che demoni ed angeli, sull’orizzonte del tempo dove ogni costruzione crolla sul finire della Storia, non siano poi troppo differenti, fuorché per i metodi con cui ricercano la medesima cosa: la verità. 

Ciò che qui si critica, ovvero la Chiesa, è l’incarnazione dello Jorge da Burgos di Umberto Eco, cioè una persona così morbosamente innamorata da tentare di cancellare la presunta menzogna a colpi di spugna, avendo il terrore della scoperta ultima di Mefistofele e dell’Arcangelo Gabriele: la risata. «Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimo con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. Jorge ha compiuto un'opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità» (6).

La verità di Mefistofele e dell’Arcangelo, infatti, è l’indipendenza dalla verità stessa, permettendo quindi l’accettazione di un mondo nel quale non esiste una monolitica interpretazione univoca del reale, ma una forma d’inclusione dell’altro. Riprendendo Luigi Pareyson, questo è dovuto al fatto che «l'oggetto si rivela nella misura in cui il soggetto si esprime» (7), poiché l'oggetto è «conoscenza di forme da parte di persone» (8). Esprimendo il concetto in termini semplici, l'interpretazione dell'oggetto muta a seconda delle persone che lo considerano, conseguentemente varia l'oggetto interpretato e varia il soggetto che lo interpreta. In un significato di più ampio respiro, questa teoria comporta che la verità non sia mai univoca, ma costituita da un infinito processo interpretativo di oggetti in cui permane soltanto una "forma formante" che il soggetto deve continuamente interpretare. Una tensione, questa, attuabile solo nella misura in cui è concessa la legittimità di un’indipendenza intellettuale da qualunque forma di miope dogmatismo, viziato dall’idea ossessiva e raccapricciante d’essere la risposta alla vita, l’universo e tutto quanto. 

Venere e Marte, Sandro Botticelli, 1481-83, tempera mista, 69×173 cm, National Gallery, Londra

Per questo è importante discutere e sdoganare la pratica dello sbattezzo come disobbedienza civile, sia in termini economici, come visto parlando della Germania e come intese il concetto originariamente Henry D. Thoreau, che in termini sociali, aprendo le porte ad un’etica laica fondata sulla qualità della vita. Giunge il tempo di riconoscersi negli angeli caduti, consci delle proprie potenzialità e delle proprie responsabilità rispetto al mondo che li circonda, tra persone che, per Fato o volontà, non possono farsi valere e problemi che richiedono uno sforzo collettivo, dando sostanzialità ontologica alla frase «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» (9).

Per questa ragione, dinanzi alla Venere di Botticelli, Mefistofele si accenderebbe una sigaretta, contemplando quell’opera terribile e venerabile, riprendendo le parole di Platone su Parmenide. L’indipendenza dagli idoli, di qualunque natura siano, porta all’espressione della natura più autentica dell’essere. Per Botticelli fu rendere Simonetta Vespucci immortale, consegnandola alla Bellezza. Per Victor Hugo fu dare voce e storia a coloro che, altrimenti, sarebbero svaniti tra le pieghe dei giorni. Per Simone Weil fu cercare di far sopravvivere una forma di spiritualità in un mondo diretto al suono dell’orchestra della Morte. Per uno studente potrebbe essere riuscire ad accettare che un voto non sia un giudizio sulla persona. Per una donna potrebbe essere l’accettazione che le uniche aspettative che ha da soddisfare sono quelle di se stessa su di sé. Per l’Uomo potrebbe essere battersi ancora ed ancora, fintantoché non arriverà il giorno in cui poter dire «qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto» (10). Il resto non è silenzio. Non ancora.


Bibliografia:
(1) I. Kant e M. Foucault; Che cos'è l'illuminismo?; Sesto San Giovanni: Mimesis; 2012; I edizione; pp. 9
(2) F. Dostoevskij; I fratelli Karamazov; Milano: Garzanti; secondo volume; 1979; pp. 680-681
(3) Traduzione: “Quindi come puoi giudicare il valore di un uomo da ciò che costruisce o compra? Non potrai mai vederlo [il tuo ruolo] con gli occhi sulla terra: guarda attraverso gli occhi del paradiso!”
(4) D. Alighieri; Commedia; Bologna: Tipografia regia; 1886; pp. 131
(5) Vangelo di Matteo 10, 16:25
(6) U. Eco; Il nome della rosa; Milano: La nave di Teseo; 2020; edizione illustrata; pp. 570
(7) L. Pareyson; Esistenza e persona; Genova: Il Melangolo; 1985; IV edizione; pp. 211
(8) Ibidem, pp. 218
(9) Atti degli Apostoli 4, 35
(10) B. Koltès; La notte poco prima della foresta; Roma: Gremese Editore; 1998; pp. 47

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