Di Alma Taormina e Federico Rossato
Se è vero che ogni momento di shitposting è partecipato da meme, non è altrettanto vero che ogni meme possa essere causa di un momento di shitposting. Non è un mistero che ci siano diversi modi di darsi dei meme, da quelli che manda vostra zia con i mai abbastanza compianti Derp e Derpina dell’universo dei Rage Comics alla storica immagine di Claudio Amendola con in mano uno stracchino Nonno Nanni ed uno sciame di scarafaggi alle spalle che va affermando di provenire dal futuro. Dunque, parafrasando Carver, di cosa parliamo quando parliamo di shitposting?
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Scrivere intorno allo shitposting è intellettualmente divertente per tre ragioni:
- l’oggetto di studio è, per sua stessa dichiarazione, una cloaca a cielo aperto, conseguentemente andare a sezionare con perizia un rigurgito di ratto fritto non può che essere macabramente affascinante;
- il soggetto, ovvero noi, non possiamo che decrittare parzialmente un meme layered all’interno di uno stream of consciousness in virtù delle nostra preparazione ermeneutica, ovvero della nostra formazione etnoculturale, rendendo l’attività kantianamente feconda nella misura in cui non potrà essere esaurita nella semplicità di un assedio frontale;
- ha quasi dell’erotico giocare in punta di fioretto per dire qualcosa in più e di più profondo su una res comunemente derubricata al reame del trash, poiché, nonostante lo sdoganarsi di uno studio più approfondito di ciò che prima sarebbe stato rigettato a ciarpame di bassa lega (cfr. Il trash sublime di Slavoj Žižek), non ci siamo ancora liberati da quello snobismo che vuole distinguere ipocritamente tra l’Arte, come La Liberté guidant le peuple di Delacroix, e il “avrei potuto farlo anch’io”, frase tipicamente legata al mondo dell’arte contemporanea (si pensi a Comedian di Cattelan o Concetto spaziale. Attese di Fontana).
Questa breve premessa per cercare di sfatare quel mito che vede, nel trash, solo due possibilità di trattazione: l’annichilimento per sadico piacere o una riduzione a panem et circenses per quella massa dannata, riprendendo Agostino d’Ippona, che sarebbe il fantomatico “popolino”. In questo articolo, forse un po’ presuntuosamente, si cercherà di rispondere a tre domande andando oltre quei vizi di forma: cos’è un meme? Cos’è lo shitposting? Come fa questi a darsi nell’esperienza?
Per la prima domanda, ovvero su quale sia lo statuto ontologico di un meme, dobbiamo superare una concezione strettamente fenomenologica, optando piuttosto per una riflessione sulle condizioni d’esistenza di un’opera d’arte e defalcando il pregiudizio linguistico che ci porterebbe a rivedere nel termine “meme” un'univoca causazione dalla mimesi. Questo non solo per un’analisi che voglia essere il più puntuale possibile, ma poiché i meme, così come possiamo trovarne a bizzeffe, non sono oggetti che mirano al riprodurre una X in termini di verosimiglianza, ma piuttosto sono veicoli autonomi di valori e significati indipendenti dalle parti che lo compongono. Quest’indagine preliminare potrebbe parere inutile, un orpello alla velleità, ma, come anche ci ricorda Tommaso d’Aquino all’inizio del De ente et essentia con una citazione aristotelica, «da un piccolo errore iniziale segue sempre un grande errore finale». La domanda, però, sorge legittimamente: possiamo considerare i meme come opere d’arte?
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La risposta è sì, possiamo ritenere i meme arte, poiché essi si fondano su principi che li rendono conseguentemente possibili d’indagine ontologica nel campo della filosofia dell’arte. In particolare, gli elementi che permettono l’espressione di questo linguaggio artistico sono:
- la serie e la sua rilevanza sul piano semiotico;
- la natura transmediale;
- l’essenza mitopoietica.
Approfondendo con metodo i punti, la serie è fondamentale nella fruizione, poiché in termini ideali ogni singolo meme è posto all’interno di una concatenazione che ne permette la comprensione più puntuale e stabile in ultima istanza. Le opere d’arte, infatti, non sono cattedrali nel deserto che si danno isolatamente, ma piuttosto complessi costrutti storici che si esplicano all’interno di un contesto. Questo perché «l'oggetto si rivela nella misura in cui il soggetto si esprime» perché l'oggetto è «conoscenza di forme da parte di persone» nel senso che l'interpretazione dell'oggetto muta a seconda delle persone che lo considerano cosicché varia l'oggetto interpretato e varia il soggetto che lo interpreta. In un significato più ampio, tutto ciò comporta che la verità non è mai univoca, bensì è costituita da un infinito processo interpretativo di oggetti in cui permane soltanto una "forma formante" che il soggetto deve continuamente interpretare. L’importanza delle serie, dunque, è abbastanza evidente all’interno dell’analisi dell’aspetto semiotico dell’opera.
Charles S. Peirce, nel suo libro Semiotica, ritiene che nel segno, inteso come icona (per immaginarlo, si pensi anche solo ad un selfie), vi siano delle proprietà dovute alla somiglianza con l'oggetto reale rappresentato, il quale è il referente, che rendono il rinvio a quest'ultimo non arbitrario bensì determinato, mentre quando il segno è un indice, cioè si trova vicino all'oggetto reale cui si riferisce (l’esempio classico è che il vedere del fumo, al netto che sia di un accampamento indiano o dell’ILVA, implichi sempre una combustione) oppure è un simbolo astratto (s’immagini un cartello di stop lungo la strada o una fede nuziale), allora il rapporto tra segno e referente è alquanto convenzionale ed ha un certo grado di arbitrarietà. Umberto Eco sostiene che quest'ultima convenzionalità, o arbitrarietà, vada estesa anche all'icona alla quale il soggetto attribuisce significati che vanno riportati al suo particolare ambiente o contesto socio-culturale, nonché al suo vissuto personale. Evidente, dunque, è l’importanza della serie all’interno della quale si danno i meme, essendo questi esattamente la perfetta manifestazione dell’illimitatezza della semiosi: ogni segno, linguistico e non, si può definire riportando la sua interpretazione ad altri segni come quando consultiamo una parola sul dizionario che ci rimanda ad altri lemmi e significati, e così via.
Si potrebbe obiettare, però, che molti meme siano comprensibili anche se distanti dal contesto che li ingloba, così come altri sono assolutamente dipendenti da un loro particolare spazio d’espressione. In altre parole, alcuni hanno senso e costituiscono un’esperienza artistica solamente se si conoscono i riferimenti precedenti che vengono chiamati in causa per la creazione di questo golem semiotico.
Dividendoli, dunque, potremmo distinguere tra meme-estetici e meme-artistici: i primi sarebbero quelli potenzialmente comprensibili anche senza conoscere tutti i riferimenti interni alla storia memetica che fa da sfondo ai rimandi semiotici, mentre i secondi sono tutti quei meme che sono autocoscienti del loro essere meme e ricombinano un codice che viene richiesto come presupposto di fruizione. I primi, i meme-estetici, sono arte nella misura in cui la fruizione impone positivamente significati ulteriori una rappresentazione che sarebbe comunque comprensibile come oggetto estetico, al contrario dei secondi che o sono arte memetica o non sono nulla.
Per quanto concerne la transmedialità, invece, dobbiamo ripartire da quanto detto precedentemente sull’intervento del fruitore in quella “cooperazione testuale” . Superficialmente potremmo essere tentati dal chiederci se, richiamando ancora una volta quel maestro venerabile e terribile che è Umberto Eco, i meme possano essere “fumetti aperti”, ma questa domanda sarebbe viziata da un errore categoriale, essendo i meme molto più complessi, esistendo meme che si presentano come patchwork di immagini e parole, altri che sono solo immagini, solo parole, gif animate, filmati e persino puro suono. In sintesi: arti visive, letteratura, cinematografia e musica costituiscono, almeno allo stato attuale dell’indagine, i mezzi attraverso cui vanno dandosi i meme. Rilevare la transmedialità sostanziale dei meme è, ovviamente, un’arma a doppio taglio per coloro che vogliono andare a perorare una loro concezione artistica a causa di una concezione volgare di cosa sia l’Arte. Coloro che preferirebbero rigettarli a figli della serva della grande magione di sua maestà l’Arte, infatti, potrebbero sostenere che proprio la transmedialità dimostri come i meme non abbiano un medium a sé, conseguentemente che non siano una forma d’arte autonoma.
Per queste persone, i meme sarebbero solo un “modo di darsi” delle arti, un loro sottogenere. Dall’altro lato, però, possiamo ribaltare l’argomento e dire che, poiché i meme viaggiano attraverso diversi medium, non sono sussunti da nessuno di questi. I meme, conseguentemente, non sarebbero una particolare evoluzione deforme dei fumetti, della letteratura, della musica, delle arti visive o altro, ma sono ciò in cui si trasformano certi mezzi espressivi quando incontrano le modalità proprie della memetica. Dopotutto, non sarebbe neanche la prima arte ad essere composta di due o più mezzi espressivi storicamente a lei precedenti, assumendo una forma che risulti superiore, in eco alla Metafisica di Aristotele, alle somma delle sue parti. Tecnicamente sarebbe inutile farlo, ma si pensi già solo al fumetto come sintesi di arti visive e letteratura, o al cinema che introduce integralmente il sistema drammaturgico all’interno di un’invenzione prettamente tecnologica.
Si arriva all’ultimo punto presentato a sostegno dell’idea che i meme possano essere considerati arte, ovvero la mitopoiesi. Riprendiamo momentaneamente, al fine di usarla come trampolino di lancio, una delle critiche precedenti, in particolare quella che vuole i meme come “modo di darsi” delle arti, defalchiamola ed arriviamo all’idea per cui ogni singola prassi umana che contempli processi imitativi e ricompositivi sia memetica. Questa tesi appena accennata è senza dubbio vera, sarebbe sciocco rigettarla con fare sprezzante, ma è anche altrettanto vaga e insopportabilmente superficiale, non cogliendo i tratti specifici che la praxis che indaghiamo ha assunto quando è entrata all’interno di Internet, ovvero quando i mezzi di produzione memetica sono stati distribuiti tra le mani, anzi le tasche, di milioni di persone, facendo in modo che un incremento quantitativo producesse un salto qualitativo.
Una di quelle peculiarità è proprio la sopracitata mitopoiesi, poiché i meme non sono semplici parassiti di idee, facendo da eco al Paprika del maestro Satoshi Kon o al più immeritatamente famoso Inception di Christopher Nolan, e nemmeno contenuti che nascono in seno ad altre arti, ma ne producono di propri. Esempio classico sono i già citati Rage Comics, ma anche i più recenti Wojak, il Boomer, il Doomer, Pepe the Frog e le wave che seguono loro. Questi non nascono con l’intenzione d’essere semplice disegno, ma d’essere un meme: essi assumono il loro senso pieno solamente se vengono accettati e riprodotti all’interno di un Artworld memetico (Memeworld), solamente se “diventano ciò che già sono” sfruttando il sempre attuale Friedrich Nietzsche. Se non accadesse tutto questo, se fossero solo lampi nella notte, sarebbero solo una forma d’arte visiva accidentale, un errore del Matrix. L’origine, il senso ed il fine di un oggetto estetico o di un’opera d’arte non hanno nulla a che fare con ciò che sono divenuti una volta messi da qualcuno su un supporto per creare un meme. Per rendere l’idea, si pensi al Thanos del Marvel Cinematic Universe e tutti i meme che ne sono derivati, i quali non sono nemmeno lontanamente il medesimo Thanos cinematografico: se quello originale, quello della pellicola, ha come fine il genocidio, quello memetico segue lineamenti completamente diversi ed intelleggibili autonomamente dal materiale di derivazione. Il Thanos memetico, in poche parole, risponde a funzioni narrative autonome che, ancora una volta, acquistano sostanzialità solamente una volta comprese all’interno di una serie ipotetica di riproduzioni. In conclusione: tanto la fruizione quanto la creazione artistica dei meme si appoggiano su processi cognitivi che eccedono quelli dei singoli medium artistici di volta in volta coinvolti. Il fruitore non sta mai guardando superficialmente un fumetto, un video, un disegno o quale che sia l’oggetto, ma percepisce invece la relazione tra questo oggetto e gli altri possibili, richiamando il motto medievale aliquid stat pro aliquo (tradotto per i non latinisti: “qualcosa che rinvia a qualcos'altro”). Il meme, dunque, non è un particolare modo di darsi delle arti, ma un modo di darsi degli oggetti nella loro dimensione semiotica all’interno di una semiosi incessante, avendo in questa relazione folle e sfrenata la loro prima raison d'être e, conseguentemente, il loro senso più prettamente artistico.
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Quando un meme diventa virale, solo una sottile linea separa il trend dallo shitposting. Spesso, le due cose si mescolano, generando una scala di grigi che permette alla creatività di farla da padrone. "There's a thin line between love and hate / Wider divide that you can see between good and bad": così cantavano gli Iron Maiden nel 2000 (1999 ad essere pignoli) con l'inizio della seconda Era Bruce. Molti trend che diventano shitposting devono la loro origine su piattaforme nate di fatto per favorire l'evoluzione di tali contenuti: Reddit, TikTok e Twitter in primis. Instagram è un sistema asettico popolato dal meme normie, mentre Facebook, nonostante le sue linee guida, permette al massimo il meme iperstizionato, a più livelli, di matrice comunista (Automatizzato Comunismo Memetico è nata così). Ma i trend come The Snail o la War between the Council and the Rogues su TikTok sono esempi di come il proverbiale battito d'ali di una farfalla possa scatenare un uragano. Un breve post di Reddit e una risposta ad un video dichiarando "i segreti degli uomini": ciò ha scatenato due dei più importanti trend che si possono trovare sul social cinese.
Ma quindi, perché chiamarlo shitposting e non semplicemente trend? Innanzitutto per l'enorme quantità di contenuti e la loro evoluzione a ruota libera. Come quando durante una partita ad Plague.Inc si tende a preferire l'investimento dei punti DNA nella diffusione della malattia e questa tende ad evolvere da sola dei sintomi. Ebbene, il meme che evolve in shitposting deve il suo principale motivo di esistenza alla pubblicazione anche insensata di contenuti, unicamente per seguire il flusso.
Un altro esempio di shitposting sono molti canali Telegram dove le persone condividono i meme di propria creazione, o semplici testi più o meno sensati, sondaggi, video, e qualsiasi altro contenuto, quasi sempre non correlato.
La risposta alla nostra seconda domanda è quindi: uno stream of shit, dove la merda non è nient'altro che una valanga di contenuti che si espande come l'esondazione del Nilo prima della diga di Assuan, al pari di molti media italiani.
Tuttavia sarebbe lecito chiedersi: perché proprio lo shitposting? L'essere umano per sua stessa natura, come tutti i primati e le scimmie con cui ci siamo evoluti, è un animale sociale, ed oggi giorno la società è un continuo flusso di informazioni. Internet, dopo essere stato per anni la tana dei ricercatori scientifici, si è aperta a chiunque, e come molte democrazie, ha lasciato spazio al lato peggiore di ogni società.
Lo shitposting puro sarebbe quello che oggi molti sintetizzano nel “finsta”, o nello scrivere di continuo sui propri profili social. Un'enorme quantità di contenuti viaggia nella rete, inondandoci. Certamente non è paragonabile un tale fenomeno quando avviene su Twitter rispetto a quando avviene su Reddit e 4Chan, due delle piattaforme più prolifiche in tal senso. Tutti i fenomeni memetici, dal troll alla frittura, fino alla shitstorm, avvengono su bacheche e discussioni che sono di fatto predisposte a ciò. I social più “comuni” all’utente di internet medio, o al memer medio che usa ancora il font impact, non possono strutturalmente mantenere un tale fenomeno.
Analizzando un social come Instagram, ci rendiamo conto che le forme del significante si riducono alla semplice immagine o al video, limitato tra l’altro; su TikTok esistono i suoni, ma anch’essi sono forme il cui significato viene limitato. Il contenuto può esistere solo dentro a una forma, ma questa può mutare e cambiare il suo significato.
Lo shitposting è, tuttavia, inserito dentro a un Memeworld, e come tale deve sottostare a delle regole: il meme deve essere riconosciuto dal sistema come tale (un po’ come avviene nell’arte contemporanea, dove anche un’opera “banale” come Comedian può valere solo grazie al riconoscimento di Cattelan come artista), ma allo stesso tempo ha una data di scadenza.
Il consumismo dilagante nel Memeworld è dovuto alla stessa natura dei meme odierni: nascono, spesso estrapolati da un contesto più ampio (es. Sanremo), vengono utilizzati da chiunque in più forme e modi, e poi vengono gettati via quando ne nasce uno nuovo. Alcuni meme vengono ripescati dal passato (basti pensare alla sempreverde We are number one da Lazy Town), e ritornano nell’oblio solo per i più; altri meme una volta nati non riescono a morire (come le JoJo poses o Megalovania). Ma i casi di meme “immortali” non bastano per compensare l’enorme quantità di meme prodotti quotidianamente per sfamare una fame insaziabile della comunità online. Lo shitposting ne è causa parziale: in questo flusso di consumo ininterrotto, il fenomeno in esame è nato per creare forme inesplorate dei meme.
Tuttavia, lo shitposting non è solo il nosense o la pubblicazione fine a se stessa, ma ha una funzionalità strumentale: si pensi alle campagne marketing sui social di Unieuro o Taffo, dove da un semplice evento può nascere un'occasione di promozione con un meme, oppure Salvini su TikTok (per quanto si agghiacciante). Non è un caso, infatti, che lo shitposting ed i suoi meme, come buoni e leali vassalli, vadano a manifestare una natura essenzialmente mobilitante: mettere like, commentare o condividere, sia direttamente che indirettamente attraverso terzi, è l’essenza di questo agire intrasociale.
Fine ultimo di questo agire politico consisterebbe nella onnipresenza anche su bacheche o FYP di persone dalla parte opposta dello spettro politico. La presenza è la diffusione di idee e valori che mobilitano, positivamente o meno, il pubblico.
Ma lo shitposting è un fenomeno complesso, che ci dimostra come su internet tutto sia, in fondo, shit. Anche un profilo privato, dove si commenta la giornata, può diventare un profilo shitposting. Ma si tende a mantenere l’etichetta per chi davvero posta contenuti, a tema o no, che possano essere condivisi da più persone. Non tutti sono shitposter, ma tutti possono godersi la mole di meme prodotta quotidianamente.
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