Cinema e saghe 3. U.S.A. - Terra dell’opportunità

Di Davide Gravina

Lars Von Trier, uno dei più innovativi, influenti ed estremi registi del cinema contemporaneo, presenta in concorso alla 56esima edizione del Festival di Cannes Dogville, il primo film di un’ipotetica trilogia, che resta tuttora monca dell’ultimo capitolo, in quanto seguirà il film del 2003 il solo Manderlay, realizzato due anni più tardi e nuovamente presentato in concorso a Cannes. Il regista danese, celebre a livello internazionale per aver coniato, insieme al connazionale Vinterberg, il movimento Dogma 95, alla cui base si trova un decalogo di regole per la realizzazione di opere cinematografiche fondate su valori tradizionali della recitazione e della tecnica cinema, escludendo quindi l’uso di effetti speciali, non è di certo nuovo a esperimenti avanguardistici. 

Basti pensare al film immediatamente precedente Dogville, Dancer in the Dark: vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2000, terzo capitolo della Trilogia del cuore d’oro (i precedenti capitoli sono: Le onde del destino del 1996 e Idioti del 1998), il film si presenta come un’opera drammaticamente banale, girata interamente con la macchina a mano e con protagonista l’arcinota cantante islandese Björk, per poi trasformarsi in un allucinato anti-musical fatto di canzoni e coreografie broadwayiane, riprese tramite innumerevoli macchine da presa, segno di evidente evasione dal mondo di oscurità nel quale la protagonista si trova costretta.

Si conosce quindi il background del regista, ma mai nessuno, guardando Dogville e Manderlay, avrebbe potuto immaginare di trovarsi di fronte a due opere tanto disturbanti (aggettivo che può facilmente essere utilizzato per descrivere anche alcune successive opere del regista, Antichrist del 2009 e i due volumi di Nymphomaniac del 2013 su tutte).

Siccome si tratta di un dittico e non di una vera e propria saga, come nei precedenti casi della rubrica, non occorre realizzare una Tier List, ma sarà sufficiente analizzare i due film in ordine cronologico, tenendo conto delle forti somiglianze, testimoni di solida unità autoriale, da cui le due opere sono attraversate.

Dogville

Lars Von Trier inizia la sua opera settima, realizzata nel pieno della sua maturità, con un’inquadratura dall’alto della mappa della cittadina Dogville, resa protagonista sin dalle parole iniziali della voce narrante: quest’ultima, unita alla presentazione di ogni abitante del paese e all’aria quasi favolistica e orrorifica un tempo che pare circondare ogni singolo fotogramma, sembra rimandare al ben più ironico incipit de I Tenenbaum. Sia Wes Anderson sia Lars Von Trier, infatti, decidono di utilizzare ogni tecnica che il cinema in quanto arte audiovisiva concede loro e la voce narrante, se utilizzata nel giusto proposito e nella giusta misura, è senza dubbio tra questi. La somiglianza tra le due opere, però, non si limita a questo: se infatti in Wes Anderson la trama si dipanerà all’interno della casa degli ormai divorziati signori Tenenbaum, Lars Von Trier gira l’intera opera dentro la cornice che ci ha mostrato nella prima inquadratura: uno spoglio centro abitato, costituito da un’unica strada e diversi punti nevralgici che impareremo via via a conoscere.

La più evidente peculiarità dell’intero set è l’assenza delle mura, delle porte e di qualunque altro tipo di accessorio inerenti ai singoli edifici. Questo significa che dall’interno di ognuno di questi è possibile vedere ciò che accade all’interno di altri edifici: questo vale per noi spettatori, ma non concerne nessuno dei personaggi. Essi, di fatto, bussano alle (inesistenti) porte di ogni palazzo, movimento accompagnato dal rumore fuori campo tipico di qualcuno che bussa, e le aprono come se queste esistessero davvero, e allo stesso modo rispettano i confini dettati dagli immaginari muri, cancelli o recinti.

Queste irreali fortezze (la casa dovrebbe essere il rifugio più sicuro per ognuno, di conseguenza non è sbagliato l’utilizzo del termine) altro non sono che puntuali rappresentazioni di ciò che la cittadina sarà per la giovane e indifesa Grace (Nicole Kidman). La protagonista trova riparo nel villaggio grazie al gentile aiuto che Tom (Paul Bettany) le riserva, nascondendola dai gangster sulle sue tracce prima e convincendo gli abitanti a darle una possibilità di mostrare il suo valore poi. Tutto sembra procedere per il meglio: gli abitanti, dal cieco orgoglioso al burbero contadino, dalle docili e anziane signore indaffarate nel realizzare statuette all’instabile camionista, accolgono la ragazza con riserbo, ma pian piano si rendono conto della sua benevolenza e del suo impegno e, così, la missione di Tom, ossia far accettare Grace come una di loro, è compiuta.

Solo dopo aver ammesso Grace, Dogville manifesta il suo vero volto: attraverso frequenti inquadrature in profondità di campo, nelle quali Von Trier mostra ciò che accade in diversi edifici contemporaneamente, gli spettatori possono rendersi conto della crudeltà che attanaglia ogni dimora. Ad esempio, mentre Tom e Grace chiacchierano, vediamo sullo sfondo il contadino Chuck (Stellan Skarsgård) litigare ferocemente con la moglie Vera (Patricia Clarkson). Presto questa crudeltà si abbatterà sull’ignara Grace. 

(Attenzione: da questo punto sono presenti potenziali spoiler
Gli abitanti si rendono conto della non completa innocenza della protagonista quando polizia e gangster vengono a cercarla: siccome ha bisogno di protezione, gli abitanti non indugiano e decidono di sfruttare la paura che la ragazza nutre nei confronti del mondo esterno. È così che cominciano gli obblighi e i soprusi, le catene e le intimidazioni, le minacce e gli stupri: Grace si ritrova vittima incolpevole della cittadina che l’aveva accolta, senza che nulla venga in suo aiuto, neanche l’innamorato Tom.

Il tutto è prontamente sottolineato dal montaggio che Von Trier decide di attuare: anche quando è mostrata una banale azione o conversazione, questa viene bruscamente interrotta da un deciso stacco che ci trasporta in un altro ambiente. È possibile riscontrare due principali motivazioni per questa scelta. Von Trier innanzitutto utilizza uno stile di montaggio predominante nel mondo documentario/semi documentario: ciò è perfettamente comprensibile, visto il valore di documento che l’opera assume. Non è scelto casualmente il titolo del dittico: il regista danese ha intenzione di smascherare le false speranze che per secoli sono state lanciate ai popoli stranieri: gli Stati Uniti non sono terre di opportunità, ma territori di abusi e prepotenza e Dogville (e Manderlay) ne è attenta testimonianza.

Il secondo motivo che invece spinge Lars a un montaggio tanto inusuale è direttamente collegabile al già citato Dogma 95. Una delle idee che sottende il movimento è quella della filosofia dell’impoverimento: Von Trier, insieme a Vinterberg, decise di eliminare ogni artifizio, digitale e non, su cui il cinema aveva fatto sin troppo affidamento: nei loro primi film, quindi, totalmente aderenti alla rivoluzione enunciata, non si fa uso di cavalletti, costumi, teatri di posa ecc. Passati, però, quasi dieci anni dalla forte spallata lanciata contro il cinema mainstream e non solo, i due si sono evoluti: nel dittico che qui prendiamo in analisi Von Trier attacca il montaggio, lo smembra, non ne fa più strumento principe per rendere la storia fruibile (come nei migliori momenti del cinema classico americano), ma lo utilizza in senso opposto, per togliere all’opera stessa una valenza puramente estetica, all’insegna di quell’avanguardia di cui si è sempre dimostrato estremo difensore oltre che prolifico protagonista.

Manderlay

L’analisi appena conclusa su Dogville mette in evidenza alcune peculiarità proprie anche di Manderlay e di Von Trier tutto. Di queste si ricordano: Grace, questa volta interpretata da Bryce Dallas Howard per via della rinuncia della Kidman a lavorare nuovamente con Lars Von Trier; gli inesistenti accessori, muri e porte dei palazzi del villaggio nel quale Grace decide di fermarsi e la difficoltosa ambientazione della protagonista nell’unico villaggio d’America nel quale vige ancora la schiavitù nonostante siano passati più di settant’anni dalla sua abolizione. Il riferimento al trattamento che la popolazione di colore ha dovuto subire per secoli è forse sin troppo esplicito, ma l’opera non è priva di geniali soluzioni narrative. Due su tutte. 

Grace approda al villaggio poiché disgustata dall’onnipresenza di una pratica abominevole come la schiavitù: decide quindi di istituire un ‘governo democratico’, nel quale le decisioni vengono prese in base alla maggioranza: proprio questa sua impresa la porterà a uccidere un’anziana signora poiché considerata unanimemente colpevole della morte della piccolissima Claire. Il piccolo governo (non può che considerarsi tale se paragonato agli interi Stati Uniti) e il modo in cui questo si evolve, funge da accurata metafora della reazione che gli abitanti di Manderlay ebbero alla notizia dell’abolizione della schiavitù: questi volevano mantenere lo status quo al quale erano oramai abituati, sicuri che il governo statunitense non fosse pronto a una politica di uguaglianza con i neri. Mantenere lo status quo significava mantenere la schiavitù, ritenuta da ogni abitante come ‘il minore dei due mali’, date le poche speranze nutrite nei confronti della nuova costituzione.

Manderlay e Dogville, cittadine e film, sono quindi teatro di un affresco impensabile, nato dalla contorta e geniale mente del regista danese che non risparmia un briciolo della sua energia creativa e distruttiva, contro l’egemonica ipocrisia che, come mostra la mappa finale di Manderlay, si stende e continua a stendersi su tutto il suolo statunitense.

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